venerdì 20 giugno 2025
Il tetto fissato dalla Nato per ogni Paese, su pressing degli Usa, spaventa Paesi come il nostro, la Spagna e persino la Francia. Facciamo un po' di conti in vista del vertice di settimana prossima
Personale militare e mezzi della Nato impegnati nelle esercitazioni in Danimarca qualche settimana fa

Personale militare e mezzi della Nato impegnati nelle esercitazioni in Danimarca qualche settimana fa - Ansa

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Il fiato sul collo di Donald Trump spinge la Nato verso l’accordo sul 5% di Pil in spese per la difesa. Washington arriva a minacciare l’assenza del presidente Usa al vertice del 24-25 giugno a L’Aja, se entro oggi, o al massimo entro domenica, non si chiuderà l’intesa. Il segretario generale dell’Alleanza, l’olandese Mark Rutte, anch’egli sotto pressione, alla fine ha approntato una piattaforma “flessibile” proprio al fine di convincere anche i più scettici, a partire dalla Spagna. E dunque l’obiettivo andrebbe raggiunto entro il 2035, senza vincoli di “progressioni annuali” e con una sorta di “verifica” nel 2029. Sono le condizioni in cui sperava anche Giorgia Meloni.
Non bastano ancora a persuadere il leader socialista spagnolo Pedro Sanchez, che ha inviato una lettera a Rutte in cui definisce l’obiettivo del 5% «non solo irragionevole, ma anche controproducente». Il 5%, ormai è noto, si compone di un 3,5% di Pil di “difesa pura” (armi e mezzi militari) e di un 1,5% di generici asset in sicurezza. In questo calderone i Paesi possono far entrare un paniere largo di investimenti: l’Italia ad esempio pensa persino al Ponte sullo stretto. I negoziati sulla definizione di cosa conteggiare in quell’1,5% si sono infatti pressoché conclusi e si parla di «infrastrutture, cyber, ibrido e resilienza».
Il problema per Sanchez, ma in realtà anche per l’Italia e altri Paesi che temono l’esposizione sui mercati causati dall’indebitamento per spese in difesa, è il contenitore del 3,5%. Secondo l’osservatorio delle spese militari “Milex”, per l’Italia l’impegno del 5% significherebbe arrivare a spendere, nell’anno 2035, 145 miliardi di euro, 100 in più degli attuali 45 (corrispondenti al 2% del Pil). Il “cammino” verso questo obiettivo comporterebbe, ancora secondo Milex, una spesa militare decennale superiore di almeno 400 miliardi a quella che ci sarebbe mantenendo fermo il parametro del 2%. Numeri da capogiro per un Paese ad alto debito pubblico, che non a caso non ha ancora sciolto le riserve rispetto alla principale opzione offerta dall’Unione Europea, ovvero la sospensione del Patto di stabilità (che però non vieta ai mercati di “sanzionare” secondo i suoi parametri).
Tra le fila di chi annaspa, oltre all'Italia e alla Spagna, ci sono anche Canada, Belgio, Lussemburgo e persino la Francia. Una possibile via d’uscita negoziale potrebbe essere quella di fare riferimento a “obiettivi di capacità” parzialmente sganciati dal numero-chiave del 5%. E dall’Eurogruppo del Lussemburgo Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, è tornato a bollare come «stupide» le regole contabili Ue: «L’Italia si impegna a uscire tempestivamente dalla procedura per deficit. Tuttavia, registriamo un problema - ha detto -: accettare l’invito ad aumentare la spesa per la difesa impedirebbe per sempre la nostra uscita dalla procedura d'infrazione».
A L’Aja Meloni ci arriverà preceduta da polemiche pressoché certe. La premier lunedì sarà alle Camere per riferire sul Consiglio Ue a Bruxelles, che si svolgerà subito dopo il vertice Nato. Quindi la difesa sarà al centro del confronto. Ma, prima ancora, la presidente del Consiglio dovrà fare i conti con la piazza anti-riarmo di sabato della società civile e con M5s e Avs. In verità, una piazza che al momento inquieta più il Pd che il governo. I riformisti dem infatti plaudono alla scelta della segreteria Schlein di non aderire. Ma c’è chi sarà presente, come l’eurodeputato (ed ex direttore di Avvenire) Marco Tarquinio. Una presenza che lo stesso Tarquinio inquadra con la necessità di dare una «accelerazione» al cambiamento imposto da Schlein al Partito democratico.
Scavallato sabato, però, ci sarà una mobilitazione che darà ulteriori grattacapi a tutti. Il capo di M5s, Giuseppe Conte, ha convocato a L’Aja un controvertice che però non vuole avere toni anti-Nato, ma ancora anti-armi. La sua iniziativa ha raccolto diverse adesioni “europee”:la gran parte proviene da The Left, il gruppo al Parlamento Europeo di cui fanno parte anche i pentastellati, che con il suo co-presidente, Manon Aubry, si manifesterà con un video messaggio di supporto all’iniziativa. Nell’elenco spiccano anche esponenti dei Verdi e, a sorpresa, anche un europarlamentare di Renew: l’irlandese Michael McNamara, pacifista e già promotore dell’Intergruppo per la pace. Conte non ha però convinto Avs, che resterà a Roma, segno di qualche prima frizione nell’ala “pacifista” del centrosinistra. L’iniziativa contiana è bollata come «irresponsabile e populista» da Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento Ue.
Avs e M5s sono stati invece compatti nel rifiutare l’invito al pranzo offerto ieri dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, e rivolto ai parlamentari dell’Assemblea Nato. Un altro motivo di polemica forte. Le tensioni interne sono destinate a crescere, non solo in Italia. E diventerebbero incontrollabili, in entrambi i fronti, se si concretizzasse l’ipotesi che tutti temono, a destra e a sinistra: la partecipazione degli Usa al conflitto con la disponibilità (da votare in Parlamento) delle basi in Italia. Per ora pero Crosetto assicura: «Non è stata mai chiesta».

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