martedì 9 gennaio 2024
Non c’è solo l’emergenza gelo, ci sono più vittime in estate: il vero problema è la fragilità. La Fio.PSD: «A chi è senza dimora serve un tetto, non basta un panino»
Un clochard dorme sotto un porticato

Un clochard dorme sotto un porticato - Fio.Psd

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Trecentonovantrè clochard morti nel 2022, altri 410 nel 2023. E già 12 nei primi otto giorni del 2024 (l'ultimo ieri a Roma, un nigeriano, investito da un treno). Una strage silenziosa, più di un morto al giorno, secondo un macabro trend in costante ascesa, visto che nel 2021 i senza dimora deceduti erano stati 250. Si muore d’inverno, certamente. Si muore per un incendio accidentale scatenatosi in un garage dove ci si è rifugiati per la notte, come capitato a Napoli due giorni fa. Oppure si resta soffocati dal monossido di carbonio che si sprigiona da un braciere di fortuna, come successo a tre magrebini che nella notte del’Epifania si erano intrufolati in un edificio fatiscente a Padova, nel tentativo di sfuggire al gelo.

Ma sempre più raramente è il freddo a uccidere, come dimostrano i dati. La strage va avanti anche e soprattutto nelle altre stagioni. Durante i mesi più freddi (che ormai a molte latitudini non sono più nemmeno tali) nel 2022 ci sono state 86 morti tra i clochard, mentre in estate se ne sono registrate 109. Il bilancio è peggiore persino in primavera (97) e autunno (101): numeri che sfatano un luogo comune, non di rado alimentato dalle frettolose semplificazioni mediatiche. Vero, i numerosi dormitori aperti nei Comuni riducono in modo significativo i rischi derivanti dalle ondate artiche, che peraltro sono sempre meno frequenti.
Ma il fenomeno è più complicato e profondo. Privato della sua membrana domestica, chiunque è più fragile, dunque è maggiormente esposto a problemi di salute, incidenti, pericoli e anche aggressioni: il 46% dei senza dimora muore in modo violento o comunque traumatico. Sono persone che sarebbero da “maneggiare con cura”, e che invece sono abbandonate a se stesse. Vivono ai margini, confinati nei loro drammi personali, invisibili ai più. Quando ci si accorge di loro, spesso è troppo tardi. Bisognerebbe invece aprire gli occhi prima - come spiega la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora (Fio.PSD) -, senza aspettare per forza l’“emergenza freddo”.

«Alla base c’è un concetto molto semplice: si affronta la questione con rimedi sbagliati, magari cavandosela con l’offerta di una coperta o di un panino. Ma lo dice la parola stessa: se uno è senza dimora, ha bisogno prima di tutto di un tetto sulla testa, più che di cibo» osserva Michele Ferraris, responsabile comunicazione della Fio.Psd. A prima vista sembrerebbe la scoperta dell’acqua calda, ma è invece il primo imprescindibile passo da cui partire per far rientrare queste persone nel contesto sociale. «Abbiamo festeggiato da poco i dieci anni dei progetti di housing first - spiega Ferraris -: si è visto che laddove questi modelli vengono sperimentati i clochard, una volta che si vedono assegnare una casa, tendono a mantenerla: se ne prendono cura con grande riguardo, osservano obblighi e scadenze. Il loro recupero passa prima di tutto dal ritrovare una dimensione abitativa, possibilmente individuale. Tanti ad esempio faticano ad accettare la condivisione di uno spazio domestico».

L’ostacolo deriva dalla scarsa disponibilità di alloggi. I bandi regionali assicurano i fondi, ma enti e diocesi faticano a reperire appartamenti da destinare a questo scopo, nonostante le garanzie offerte. I privati non li concedono per diffidenza, ma basterebbe poco per vincere gran parte dei pregiudizi. «Immaginare sgravi fiscali o qualche altra forma di incentivo potrebbe spingere i proprietari di immobili sfitti a concederli con maggior facilità» sostiene la Fio.PSD. Ma occorre anche agire sulla prevenzione: chi arriva a perdere la casa vede frantumarsi le sue certezze. «Pensiamo alla questione dei tanti papà separati - riflette Ferraris -, che magari per riuscire a pagare gli alimenti all’ex moglie si vedono costretti a dormire in auto. Occorre prevenire lo scivolamento di questi soggetti in uno stato di povertà estrema. In questa prospettiva può rivelarsi davvero fondamentale uno strumento come il reddito di inclusione».

Bisogna anche fare i conti con le diverse sensibilità di chi vive in strada. I dormitori ci sono, ma alcuni preferiscono evitarli per ragioni solo apparentemente banali. «C’è chi vive con un cane, e per accedere a una struttura dovrebbe abbandonarlo. Quindi non ci pensa nemmeno, visto che è l’unico affetto che ha. Senza contare che i dormitori danno riparo per la notte e non per il giorno. La casa non serve ovviamente solo per dormire, questo va compreso. Per questo bisognerebbe fermarsi e ridiscutere interamente le politiche abitative, approntando nuovi approcci cui far seguire interventi concreti».

Potrebbe essere d’aiuto anche tracciare un identikit di massima di chi vive in strada. Secondo le statistiche della Fio.PSD (che presenterà il report 2023 verso fine gennaio), il 91% dei senza fissa dimora deceduti è di sesso maschile, perlopiù di mezza età. Tra loro l’aspettativa di vita crolla verticalmente: se l’italiano medio muore in media a 81 anni, per i clochard la media scende a 47 anni. In gran parte si tratta di stranieri, migranti arrivati in Italia per ritagliarsi un futuro migliore e invece finiti in un tunnel di disperazione. Il 46% proviene da paesi extra Ue (molti i marocchini), il 14% da stati comunitari, Romania in primis. C’è poi anche un nemico cinico e subdolo con cui fare i conti, la burocrazia. «Per ottenere un contratto d’affitto, banalmente, viene chiesta la residenza - aggiunge Ferraris -. E molti Comuni faticano a stabilirla all’indirizzo del municipio (come prevede la legge, ndr). Non solo, se non hai una residenza non hai diritto nemmeno al medico di base. Perciò se non stai bene l’unica alternativa è andare direttamente al pronto soccorso. E questo si traduce anche in costi per la sanità pubblica».

La strage di clochard colpisce in tutta Italia: nel 2022 i decessi sono stati registrati in 234 Comuni, sparsi in tutte le regioni. Ma il picco si è registrato al Nord, dove si è verificato il 50% delle morti. E la regione dove si muore di più sul marciapiede è purtroppo la Lombardia (17% dei casi). La Regione più ricca, che però rischia di sembrare la meno generosa.

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