
La Premio Nobel per la pace Leymah Gbowee - .
Cosa fa un premio Nobel dopo che è stato nominato premio Nobel? Può andare “in pensione”, e nel caso dell’attivista liberiana Leymah Gbowee, premiata nel 2011 a soli 39 anni, sarebbe stato decisamente presto. Oppure sfrutta il premio stesso per promuovere ciò che le sta a cuore. Nel suo caso, la pace. E la pace, in fondo, cos’è? «Ho coniato una definizione per questo: credo che la pace non sia solo l’assenza di guerra, ma la presenza di condizioni che offrano dignità a ogni essere umano – risponde convinta Gbowee –. Non si può pensare di avere pace senza un vero sistema educativo od opportunità lavorative. In questo senso, sviluppo, economia e pace sono legati. Tutti noi dobbiamo poter essere ciò che desideriamo diventare, senza riguardo a religione, etnia o razza. Se un Paese offre dignità a tutti ecco, quello è il Paese in cui c’è vera pace».
Non c’era dignità, né tanto meno pace, nella Liberia della guerra civile in cui Gbowee cresceva e che in due fasi, tra il 1989 e il 2003, vide morire oltre 250mila persone. Guerra di potere e di risorse, guerra di cui oggi si rischia di perdere la memoria. Gbowee – che ieri a Milano ha tenuto una prolusione durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – ha 17 anni quando, allo scoppio del conflitto, finisce in un campo profughi in Ghana.
Due anni dopo, torna nella capitale liberiana Monrovia. Studia servizi sociali e si dedica alle persone traumatizzate dalla guerra. Soprattutto, decide di non stare più a guardare il suo Paese cadere a pezzi. Fonda così la Women of Liberia Mass Action for peace, un’iniziativa che unisce donne cristiane e musulmane in un movimento non violento che giocherà un ruolo chiave nella fine della guerra. Vestite di bianco, le donne insieme digiunano, pregano, cantano in pubblico. E per attirare l’attenzione dei media, anche internazionali, organizzano uno “sciopero del sesso”, che fa rumore. La testardaggine di Gbowee frutta incontri con l’allora presidente Charles Taylor e una presenza importante durante i colloqui di pace tra lo stesso Taylor e le forze rivali: le donne arrivano a bloccare i delegati nella sala conferenze dell’hotel in cui sono in corso i negoziati: “Si tratta a oltranza fino alla pace. O di qui non ve ne andate”. Nel 2011, per Gbowee, il Nobel per la pace, condiviso con altre due donne: Ellen Johnson Sirleaf, diventata presidente della stessa Liberia, e l’attivista yemenita Tawakkul Karman.
Qual è la principale eredità che l’impegno del suo movimento ha lasciato alla Liberia?
Quella in Liberia è stata una delle guerre più brutali in Africa, durata 14 anni, ma la mobilitazione di noi donne ha lasciato un’eredità ancora forte. Nel mondo sono molti i Paesi in guerra, molte le persone che soffrono. A me dà gioia pensare che, da Israele alla Palestina ad altre parti del mondo, qualcuno possa dire: se ce l’hanno fatta i liberiani possiamo farcela anche noi. Ma questo non riguarda solo la guerra: ha a che fare con il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, la costruzione di una pace sostenibile e duratura. Noi non ci siamo mai seduti sugli allori, abbiamo continuato a lavorare in tutti questi anni.
Come coinvolgete oggi i giovani?
Sono trascorsi 22 anni dalla fine della guerra e una nuova generazione è cresciuta senza conflitti, una generazione che non ha però visto il prezzo che noi abbiamo pagato. Per questo parliamo loro continuamente del lavoro fatto. Credo sia importante portare l’istruzione fuori dalle classi, così come è importante portare la realtà delle nostre vite quotidiane dentro le classi. Oggi tante femministe, specialmente in Europa, affermano anche con arroganza: “Noi abbiamo dei diritti”. Ma 50 anni fa c’è chi ha lottato per quei diritti. E bisogna continuare a lottare. Oggi la disinformazione danneggia la qualità della democrazia: c’è sempre, quindi, una nuova sfida.
Che messaggio arriva ai giovani africani dalle barriere che continuano ad alzarsi nel mondo contro l’immigrazione?
Se ci fossero condizioni economiche che li facessero vivere dignitosamente, questi giovani non partirebbero per un viaggio che non dà garanzie di sopravvivenza: lo fanno solo perché stanno combattendo per la loro vita e la loro dignità, per avere prospettive per il futuro. E come dicevo prima, senza dignità non c’è pace.
Com’è cambiata la sua vita con il Nobel?
Vincere il Nobel, oltre a incrementare la mia fede, mi ha reso più determinata nella lotta per la giustizia sociale, soprattutto a livello di comunità di base. Appena posso torno nella mia stessa comunità di origine. Vincere è stata un’enorme benedizione, ma da ogni benedizione arrivano sfide e il bisogno di fare di più, come recarmi in Paesi coinvolti dalla guerra, dall’Ucraina al Congo al Sud Sudan.
Com’è iniziato il suo attivismo per la pace?
Già da bambina non mi piaceva l’ingiustizia. La nostra comunità era molto legata, senza riguardo a differenze etniche: eravamo una cosa sola. Poi un giorno scoppia la guerra e le persone che conosci e tutto il resto viene capovolto. Volevo quindi fare qualcosa e ho iniziato a riunire gruppi di donne che volevano impegnarsi per la pace, cominciando dalle più giovani. Lavoravo nel frattempo con gli ex bambini soldato, che erano vittime come me: alcuni di loro avevano iniziato a combattere a 7 anni sotto l’effetto di droga. Mi sono detta: devo usare la voce non solo con i bambini, ma parlando agli adulti. È iniziata così, per fare la differenza. Per convincere le persone a unirsi e pregare insieme ho cominciato a dire: se un proiettile viene sparato in una stanza, pensate che questo proiettile farà qualche differenza religiosa tra le sue vittime? Ci sono voluti mesi, molti hanno lasciato subito, altri sono arrivati. Ma le donne erano considerate niente a livello politico.
Cosa le dissero all’epoca i politici?
«Devi tornare a casa e occuparti dei tuoi bambini», letteralmente. E ancora: «Apprezziamo quello che voi donne avete fatto ma ora basta». E la mia risposta fu: «Mai». Alcuni però poi sono tornati dicendomi: «Avevamo proprio bisogno di questo».
L’impegno delle donne è poi risultato fondamentale…
Siamo uomini e donne, ma la casa è la stessa. Se scoppia un incendio e ci sono due secchi nella casa, sia l’uomo che la donna devono prenderne uno e insieme spegnere le fiamme. Il ruolo delle donne, quindi, in ogni situazione è quello di usare il proprio talento per la causa comune: siamo partner uguali per il bene del mondo.
La religione unisce?
C’è un versetto contenuto in ogni libro religioso, dalla Bibbia al Corano alla Torah: «Ama il tuo vicino come te stesso». La religione non può essere usata come uno strumento per dividerci. Le persone non vedono un cattolico quando prega: vedono un essere umano. La pratica religiosa non deve quindi creare differenze.
Quale importanza ricoprono iniziative come i progetti avviati dall’Università Cattolica in Africa?
I programmi accademici offrono speranza ai giovani, così che la prima opzione per il loro futuro non sia quella di salire su una barca per attraversare il Mediterraneo. Università e aziende agiscono però spesso in contesti separati, bisogna cooperare per riuscire. Non basta il dialogo interaccademico, occorre avere rapporti con istituzioni politiche, aziende, comunità, un lavoro collettivo che porti a un vero cambiamento. Viviamo in un mondo in cui c’è più istruzione rispetto al passato ma con una generazione che ha meno speranza. La domanda, dunque, è: “Come possiamo trasformare questa istruzione in modo da unirci l’un l’altro?”. Sono contenta che l’Università Cattolica dedichi queste risorse all’Africa, in uno scambio che sia tra pari. Perché ci sia finalmente un vero equilibrio di scambio intellettuale, di ricerca e di riconoscimento reciproco dei talenti.