
Fratel Biagio Conte - .
A due anni dalla sua scomparsa – il 12 gennaio del 2023 – tutto racconta la presenza incancellabile di Biagio Conte, l’uomo con il saio e con i sandali che, a Palermo, ha edificato la Missione “Speranza e carità”, per offrire un ricovero e una carezza ai diseredati. La strada che ha tracciato è ancora viva nel cuore di una moltitudine di persone che non smettono di cercarlo, di pensare al suo esempio, di ritrovarlo nei luoghi del suo pellegrinaggio terreno. Biagio aveva cominciato il suo percorso alla stazione centrale, luogo di ombre e di vite smarrite, molto tempo fa, con un impegno strenuo, arricchito dalla presenza di fedeli compagni di viaggio. Poi, la nascita della Missione che oggi conta più sedi e che continua l’opera di assistenza, guidata da don Pino Vitrano, amico della prima ora. Don Pino è stato sempre accanto a fratel Biagio, lungo il cammino, come nelle ore fatali della malattia e della morte.
Tutto racconta il segno di una vita spesa per gli altri. Tutto ha raccontato la persistenza di una figura così luminosa, nella chiesa della Missione di via Decollati, gremita di fedeli, domenica scorsa, in occasione del secondo anniversario. La Messa è stata celebrata dall’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice, che ha richiamato con vigore il senso di una esperienza. «Fratel Biagio nei suoi giorni terreni – ha detto l’arcivescovo - ha parlato, ha gridato ai nostri cuori. Ancora oggi, la sua è una voce che continua a risuonare imperterrita, nonostante una rumorosa ostentata sordità, a volte, sembra metterla a tacere. La sua voce continuerà a risuonare, nessuno la potrà soffocare, tanto meno edulcorare o strumentalizzare».
«Voce che vuole continuare a parlare alla città, alla Chiesa, alla Missione di speranza e carità – ha proseguito -. Voce che deve continuare la sua corsa. Arrivare al cuore. Scuotere. Vagliare, provocare, indirizzare. La sua voce, il suo grido, ci hanno aiutato a vedere ciò che non sappiamo o non vogliamo vedere. E devono continuare a farlo».
Parole nette, anche nella conclusione dell’omelia, quelle dell’arcivescovo: «Tutto quello che ha fatto lo ha fatto così. Con umiltà, senza assolutizzare se stesso e le opere da lui realizzate. Conservando una grande libertà da ogni condizionamento interiore ed esteriore. Rimanendo sempre umile discepolo del suo Signore. Figlio della Chiesa, segno del Regno di Dio nel mondo. Un semplice strumento. “Piccolo” era l’unico titolo onorifico che si attribuiva. Consapevole fino all’ultimo che i segni posti, tali sono le opere, solo segni, devono rimanere tali, rimando del Regno, giammai assolutizzati o, peggio ancora, assoggettati ad altri “regni umani” o manipolati da altre logiche».
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