mercoledì 6 dicembre 2023
In molti valutano l’abbandono degli studi per migliorare il proprio stile di vita o, peggio, per non compromettere la salute mentale
Medici in ospedale

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Centinaia di lettere affollano ogni giorno la casella postale del dottor Massimo Minerva, fondatore e presidente di Als (Associazione libera specializzandi). Sono le missive dei giovani medici in formazione che lamentano turni proibitivi, tutor latitanti e didattica scadente. «Cara Als, …», attaccano come per scrivere una letterina a Babbo Natale. Ma poi tutti, a legger bene, dimenticano il nome: «Vi prego l’anonimato», implorano per timore di ripercussioni.

Sono una folta parte dell’esercito degli specializzandi italiani: oltre 16mila i posti totali per le scuole di area sanitaria nell’anno accademico in corso, di cui uno su quattro è andato a vuoto. Dovrebbero beneficiare di una formazione superiore, ma de facto reggono sulle loro spalle interi reparti ospedalieri. Con ripercussioni sul loro futuro nel Servizio sanitario nazionale e, talvolta, sulla loro salute mentale. In primis, è una questione di orari. A fronte di 38 ore settimanali previste dai contratti, sostengono gli specializzandi, gli straordinari sono una routine quasi quotidiana.

«Nella mia scuola si fanno turni disumani – denuncia Laura (nome di fantasia, come i seguenti), impegnata in un ateneo romano –, lavoriamo oltre 12 ore al giorno, compresi sabato e domenica». Con la responsabilità di tirare avanti il reparto da soli perché – sostiene la dottoressa in formazione – «gli strutturati e il professore si vedono la mattina verso le 8.30 per il giro visite e per il caffè mattutino, poi spariscono tutti».

È così anche a Modena, dove Giovanni ha appena preso servizio: «Con oggi – scrive nella lettera ad Als –, ho totalizzato 9 giorni di lavoro con 12-13 ore al giorno senza pause o pranzi garantiti». Ad accreditare le testimonianze dei giovani camici bianchi, sono le molte timbrature inviate ai sindacati di categoria.

Quella di Marco, ex specializzando in ginecologia a Udine, segna per esempio 281 ore nel solo mese di dicembre 2022 con una media che supera le 13 ore di lavoro al giorno. Eppure, nel dizionario dei medici in formazione, fatica non è sinonimo di apprendimento. Spesso lamentano di essere prestati ad attività utili per gli ospedali, ma che con la loro preparazione hanno poco a che fare. Sofia, specializzanda all’Università di Cagliari, sostiene di trascorrere la maggior parte del suo tempo a fare guardie e monitoraggio dei pazienti in ambulatorio. In altre parole, le sue, si tratta di «rispondere al telefono o accogliere pazienti che nel 90% dei casi vengono solo per sfogarsi». Oppure di «fare da cani da guardia a persone che non vogliono essere disturbate mentre dormono sotto effetto di farmaci».

Quando va peggio, però, i giovani dottori sono direttamente impiegati come segretari. Sarebbe il caso dell’Università Luigi Vanvitelli di Napoli, dove gli specializzandi in radiologia assicurano di lavorare in accettazione e di sbrigare ogni giorno pratiche amministrative. Se non sono impegnati in sala o in corsia, però, i medici in erba dovrebbero perfezionare la loro formazione accademica.

In realtà, non sempre è così. «La didattica settimanale prevista è assente – continua Sofia da Cagliari –. Siamo lasciati soli a valutare pazienti senza un possibile riscontro dai tutor che non ci coinvolgono nella discussione dei casi in carico».

E ancora: «Paghiamo fino a 3mila euro per non avere nessun journal club (incontri per la valutazione della letteratura scientifica, ndr), lezione frontale o simili – lamenta Paolo da Perugia – e, quando ci iscriviamo ai corsi, lo facciamo sempre di tasca nostra».

Così, a queste condizioni, molti valutano l’abbandono degli studi per migliorare il proprio stile di vita o, peggio, per non compromettere la salute mentale. «Qua siamo in otto – continua Giovanni da Modena –: due stanno già pensando di abbandonare questa strada e i restanti, assieme a me, sono esausti».

«Non riesco a parlare, devo riprendermi perché sono depresso», confessa invece Gianluca dopo aver rinunciato alla sua specializzazione a Udine. Ma, nonostante tutto, la denuncia non è quasi mai un’opzione.

«Vi scrivo per segnalare alcune criticità – ammette Paolo dall’Università di Verona – ma temo possibili ripercussioni da parte del direttore della scuola, in quanto mi sono già stati riferiti episodi di rivendicazioni».

Al suo pari, centinaia di altri specializzandi tutelano a ogni costo il proprio anonimato, spaventati dalla spada di Damocle della bocciatura. Che, a dire il vero, non viene quasi mai applicata come strumento di coercizione, ma spesso percepita come minaccia dai diretti interessati. «Questa mail potrebbe aiutarmi o “incasinarmi” ancora di più», ammette Giovanni da Modena nell’intestazione della sua lettera di denuncia. Perciò, con queste premesse, non sempre il rinnovo degli accreditamenti è una mera formalità per le scuole.

Degli oltre 1.300 centri universitari riconosciuti, sono decine le specializzazioni irregolari da anni: in urologia a Catanzaro è mancato per oltre 5 anni un Pronto soccorso e, per lo stesso lasso di tempo, geriatria a Torino ha fatto a meno di un reparto di lungodegenza.

In altri casi, invece, pare che siano le istituzioni a chiudere un occhio. Un esempio su tutti è la scuola di ginecologia della Vanvitelli di Napoli che, nonostante da almeno sei anni non raggiunga la quota minima di mille parti prevista dagli standard di legge (dati Agenas), ha sempre ottenuto l’accreditamento. In questo caso, in particolare, non sarebbe stato sufficiente neppure un placet provvisorio, che avrebbe obbligato la scuola ad adeguarsi entro due anni dalla segnalazione.

«Il sistema non protegge i dottori ma le università – sostiene il presidente Als Massimo Minerva –. Quando denuncio, non cambia niente. L’Osservatorio che deve decidere sugli accreditamenti (dipendente dal ministero dell’Università, ndr) è totalmente impermeabile alle segnalazioni». Così, secondo il rappresentante dei medici in formazione, «le scuole hanno perso il diritto morale di formare gli specializzandi perché ritengono di usarli a proprio piacimento, per i loro interessi, e non per il bene della formazione».

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