domenica 17 marzo 2019
Il 19 marzo 1994 veniva ucciso il sacerdote simbolo della lotta alla camorra. Il vescovo di Aversa, Spinillo: un martire, che non ha taciuto contro la violenza delle mafie
«In ascolto del popolo, la lezione di don Peppe»
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«Don Peppe Diana era un sacerdote di questa terra, che coltivava una speranza, il sogno che non si taccia e che invece si possa parlare, che si sia capaci di esprimere un desiderio di bene e di diventarne protagonisti. È stato un martire, che è chi non si nasconde ma vuole vivere dialogando anche con l’assassino». Così il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, ricorda il parroco di Casal di Principe, ucciso 25 anni fa, il 19 marzo 1994.

Monsignor Spinillo, lei in una recente Lettera pastorale ha definito don Diana "sentinella e profeta". Perché?
È il messaggio che ci viene da tutto il suo cammino sacerdotale, fino alla morte. In primo luogo essere sentinelle che non tacciono. Ma non solo nel senso della denuncia. La sentinella deve individuare il male fin dal suo sorgere ed evidenziarne i pericoli, ma deve poi coniugarsi con la profezia che è l’annuncio della meta verso cui andare, annuncio di speranza.

E questo era don Peppe?
Era un attento osservatore dei segni dei tempi attraverso i quali il Signore ci parla. Perché uno non taccia e possa parlare, deve saper prima ascoltare e don Peppe ha saputo ascoltare le fatiche e le difficoltà di un popolo vessato da forme gravi di sopraffazione ma soprattutto ha saputo ascoltare la voce di Dio che lo chiamava ad essere sacerdote nella realtà di questo popolo fino all’offerta di sè per la vita del suo popolo.

Perché un sacerdote arriva al punto di essere "scomodo" per la camorra e deve morire?
Viveva in un territorio del quale ha respirato le situazioni di difficoltà, del quale ha imparato a riconoscere la sofferenza ma anche la rassegnazione a dinamiche di prepotenza, di violenza mafiosa quasi subite come qualcosa di ineluttabile, nella logica del prevalere del più forte sul più debole. Però poi da questo ambiente nel quale è cresciuto, don Peppe si distacca e annuncia qualcosa di nuovo, una visione della vita diversa. Scomodo anche nell’annunciare un tipo di religiosità diversa da quella a cui si era abituati. Nella camorra si vive una forma di religiosità in cui c’è la stessa logica di sopraffazione, in cui il più forte è colui che può elargire favori o dare condanne. Essere religiosi come sottomessi a una potenza più che partecipi di una vocazione a condividere la grazia e la carità. Quindi chi annuncia una religiosità che invita a essere fermento e partecipazione di vita, diventa uno fuori dal coro, scomodo.

Lei nel 2011, il giorno prima dell’ingresso come vescovo ad Aversa, è andato sulla tomba di don Peppe. Come mai?
Quel gesto voleva dire che in don Peppe vedevo tutti i sacerdoti ma anche tutti i fedeli che in questo territorio vivono con impegno la lotta alla camorra e a tutto ciò che è prepotenza, egoismo, male. Volevo dire a tutti quelli che sentono di poter essere nella Chiesa coloro che amano il Vangelo e lo vogliono vivere, che io ero con loro.

Poi più volte è tornato sulla figura di don Peppe con la ripubblicazione del documento del Natale 1991, una sua rielaborazione e recentemente una Lettera pastorale proprio su di lui.
Come tutte le figure che sono in qualche modo fuori dal coro e cercano di richiamare tutti ad un’attenzione a cose a cui forse si è guardato poco, rischia poi di essere interpretato in modi diversi. C’è chi lo interpreta solo nella forma della lotta alla camorra o solo come una voce scomoda per la Chiesa stessa. Invece dobbiamo cercare di rileggerlo insieme, conciliando tutte queste diverse letture, per rendere giustizia a don Peppe, al messaggio che ci dona e farlo fruttare, e poi perché abbiamo bisogno davvero di essere uniti in tutto questo. Se siamo uniti in questa dimensione che don Peppe ci rilancia, saremo compatti nel poter annunciare nella nostra società un modo nuovo, diverso di vivere. Se, come può essere qualche volta accaduto, ci perdiamo in una serie di distinguo che ci isolano l’uno dall’altro, pur in fondo rifacendoci alla stessa esperienza di don Peppe, rischiamo di vanificarne il messaggio.

Questi 25 anni sono stati sicuramente di cambiamento, però lei più volte ha lanciato l’allarme su un’illegalità diffusa, sottovalutata.
È la cultura dell’illecito che dobbiamo sconfiggere. Ognuno cerca di risolvere i suoi problemi non con azioni esplicitamente illegali, ma che continuano a creare rapporti di sottomissione. È la logica del favore, l’abitudine rassegnata al lavoro nero, o a quello per il quale dobbiamo sempre dire grazie a chi ce l’ha offerto. O ancora il pochissimo rispetto per l’ambiente.

Don Peppe era particolarmente impegnato coi giovani. Un tema attualissimo.
La società ha bisogno di riprendere il desiderio di dialogare coi giovani che purtroppo negli ultimi anni si è affievolito. La testimonianza di don Peppe è proprio quella di mettersi in dialogo, di passare del tempo, da un campo scuola all’attività parrocchiale, o anche solo sostando in piazza. Momenti nei quali il dialogo diventa più vero.

Don Peppe aveva capito prima di altri il problema dell’immigrazione, aprendo la parrocchia alle persone sfruttate.
L’immigrazione cominciava ad essere un fatto presente nella nostra realtà e si registravano le prime forme di sfruttamento. La Chiesa tutta si è subito dimostrata attenta. C’era una ricchezza di pensiero che denotava una sensibilità nella quale don Peppe certamente era protagonista. Di questa forma di accoglienza è stato sicuramente un antesignano.

Don Peppe invitava a risalire sui tetti per annunciare parole di vita. Anche oggi?
È attualissma. Ce l’ha detta Gesù, quando diceva che bisogna gridare dai tetti. Don Peppe riprende questa espressione del Vangelo per fare però questo annuncio di vita che è tanto necessario in un tempo in cui papa Francesco ci invita a non coltivare l’idea che tutto poi possa diventare uno scarto.

In tanti chiedono la beatificazione di don Peppe. Il vescovo come risponde?
Se un eventuale riconoscimento di questo tipo ci potrà essere, lo si coglierà dai frutti. Penso che prima di preoccuparci di arrivare a una forma pubblica di canonizzazione sia più giusto vivere intensamente quanto ci è stato trasmesso, così che possa da questo vedersi un frutto ricco e abbondante, e di unità di tutti coloro che sentono di volersi ispirare al suo insegnamento. Sarà poi il tempo a dirlo, non pretendiamo di avere fretta, perché la fretta non ci aiuta.

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