«Bisogna entrare in quei campi e sporcarsi le mani»
Don Massimo Mapelli: bisogna evitare che gli insediamenti illegali dei rom diventino dei ghetti. Per farlo, occorre accettare la fatica e i fallimenti, immaginando percorsi complessi

L’unica strada è tornare a sporcarsi le mani, sempre in mezzo. Anche nei ghetti, dove i piccoli rom, fantasmi agli angoli periferici della metropoli, vengono arruolati dalla criminalità.
Diversi anni fa don Massimo Mapelli, responsabile della Caritas Ambrosiana per la sesta zona pastorale della diocesi di Milano, si occupava alla Casa della Carità, allora guidata da don Colmegna, della gente dei campi rom al tempo delle ruspe comunali che spianavano anche i libri di scuola. Oggi, nelle comunità di “Una casa anche per te”, il prete impegnato nella lotta alla mafia accoglie ragazzi in fuga da tutto il mondo e traccia un bilancio del lavoro di quegli anni duri, sintetizzabile nella frase “stare in mezzo” più che mai attuale.
«Appena ho sentito la notizia dell’investimento – rivela don Massimo – ho pensato alla donna uccisa e alla sua famiglia. Poi anche a quei ragazzini e sono tornato con la memoria agli anni dell'emergenza rom, agli insediamenti abusivi come quello in cui vivevano loro. Penso che di lavoro ne sia stato fatto tanto, ma non dobbiamo smettere, perché quando gli insediamenti abusivi diventano ghetti, il problema diventa enorme». Quattro minori nemmeno imputabili per quello che hanno commesso che vivevano come fantasmi. Padri in carcere, madri assenti, niente scuola. Largo alle ruspe? «Possiamo anche illuderci di risolverla con la propaganda - risponde il sacerdote - come chi dice che vanno sgomberati e basta. Ma anni fa ho conosciuto gente sgomberata sei volte e mai uscita da Milano. Con le ruspe non risolvi nemmeno il problema di quelli che i rom non li vogliono».
E allora da dove si riparte? «Il lavoro che abbiamo fatto anni fa, quando ero in Casa della Carità, dimostra che alcune cose si possono fare. Ne abbiamo accolti alcuni, con altri abbiamo lavorato nei campi, abbiamo collaborato anche alla chiusura dei campi di Triboniano e di via Idro, facendo fare percorsi e passaggi faticosi a queste famiglie. I risultati? Oggi alcuni dei ragazzi accolti si stanno laureando in sociologia, altri hanno comprato casa. Mi capita di incontrarli per Milano. Lavorano». Miracoli? «No, bisogna fare fatica, stare in mezzo, come dicevamo in quegli anni con don Virginio Colmegna, e provare a costruire percorsi complessi. Non tutti andranno bene, però non c'è altra strada, a meno che invece di risolvere il problema si voglia quotarlo al mercato del consenso facile».
Torniamo ai quattro del Gratosoglio, nessuno pare essersi interessato di loro. «Se c'è un insediamento abusivo, lo ripeto, qualcuno deve sporcarsi le mani lì dentro, altrimenti diventa un ghetto dove magari ci sono padri in galera o consumati da anni di carcere e madri che vengono da storie di deprivazione tali da non essere in grado di educare i figli. Oggi manca una città che si sporchi le mani. Non si può dire che negli ultimi anni non sia stato fatto niente. Basta guardare gli insediamenti chiusi, i percorsi avviati. Ma non basta, nessun ragazzino deve stare confinato nei ghetti dove i più piccoli crescono a pane e micro criminalità. Non possiamo più accettarlo».
I rom non vogliono mandare ai figli a scuola, recita il pregiudizio. È vero? «È la criminalità che non va d’accordo con la scuola, non la cultura rom. Ne conosco tanti che hanno imparato nelle scuole milanesi, che hanno fatto esperienze molto forti, a leggere e scrivere, a differenza dei loro genitori. Questo fa la differenza anche in una vita familiare e nei tentativi di integrazione. Quando sono piccoli, i ragazzi sono libri su cui puoi scrivere pagine diverse, dobbiamo interrogarci su che pagine siamo capaci di scrivere. Ma dobbiamo investire perché ogni volta che qualcuno ce la fa è un successo per tutti».
Vale la pena di investire anche su preadolescenti con esperienze di microcriminalità? «Non è facile, ma se si lavora quotidianamente e seriamente se si da molto, si fanno percorsi belli. Certo, ci sono anche gli insuccessi, qualcuno dopo i 18 anni viene risucchiato dalla famiglia e magari inizia a entrare e uscire dal carcere».
Restano i pregiudizi dell’antitziganismo diffuso. «Ricordo una famiglia che avevamo aiutato ad ottenere una casa a cui i vicini lasciavano le chiavi per andare in vacanza chiedendogli di curarla perché in giro c’erano gli zingari. Loro non avevano detto di essere rom perché altrimenti si sarebbe eretto contro di loro un muro. Anche sui posti di lavoro e scuola si tace la propria origine per la stessa ragione. In Italia diversi cittadini rom hanno studiato e fatto percorsi anche straordinari. Si sono organizzati in associazioni, ma raramente possono esprimersi pubblicamente. A Milano e nelle altre città bisogna creare luoghi d'incontro con i residenti. Spesso bastano momenti anche semplici per abbattere i pregiudizi. Non è facile, ci vuole preparazione, fare la fatica di stare in mezzo a prendere colpi da destra e da sinistra. Ma vuol dire che sei nel posto giusto».
«Appena ho sentito la notizia dell’investimento – rivela don Massimo – ho pensato alla donna uccisa e alla sua famiglia. Poi anche a quei ragazzini e sono tornato con la memoria agli anni dell'emergenza rom, agli insediamenti abusivi come quello in cui vivevano loro. Penso che di lavoro ne sia stato fatto tanto, ma non dobbiamo smettere, perché quando gli insediamenti abusivi diventano ghetti, il problema diventa enorme». Quattro minori nemmeno imputabili per quello che hanno commesso che vivevano come fantasmi. Padri in carcere, madri assenti, niente scuola. Largo alle ruspe? «Possiamo anche illuderci di risolverla con la propaganda - risponde il sacerdote - come chi dice che vanno sgomberati e basta. Ma anni fa ho conosciuto gente sgomberata sei volte e mai uscita da Milano. Con le ruspe non risolvi nemmeno il problema di quelli che i rom non li vogliono».
E allora da dove si riparte? «Il lavoro che abbiamo fatto anni fa, quando ero in Casa della Carità, dimostra che alcune cose si possono fare. Ne abbiamo accolti alcuni, con altri abbiamo lavorato nei campi, abbiamo collaborato anche alla chiusura dei campi di Triboniano e di via Idro, facendo fare percorsi e passaggi faticosi a queste famiglie. I risultati? Oggi alcuni dei ragazzi accolti si stanno laureando in sociologia, altri hanno comprato casa. Mi capita di incontrarli per Milano. Lavorano». Miracoli? «No, bisogna fare fatica, stare in mezzo, come dicevamo in quegli anni con don Virginio Colmegna, e provare a costruire percorsi complessi. Non tutti andranno bene, però non c'è altra strada, a meno che invece di risolvere il problema si voglia quotarlo al mercato del consenso facile».
Torniamo ai quattro del Gratosoglio, nessuno pare essersi interessato di loro. «Se c'è un insediamento abusivo, lo ripeto, qualcuno deve sporcarsi le mani lì dentro, altrimenti diventa un ghetto dove magari ci sono padri in galera o consumati da anni di carcere e madri che vengono da storie di deprivazione tali da non essere in grado di educare i figli. Oggi manca una città che si sporchi le mani. Non si può dire che negli ultimi anni non sia stato fatto niente. Basta guardare gli insediamenti chiusi, i percorsi avviati. Ma non basta, nessun ragazzino deve stare confinato nei ghetti dove i più piccoli crescono a pane e micro criminalità. Non possiamo più accettarlo».
I rom non vogliono mandare ai figli a scuola, recita il pregiudizio. È vero? «È la criminalità che non va d’accordo con la scuola, non la cultura rom. Ne conosco tanti che hanno imparato nelle scuole milanesi, che hanno fatto esperienze molto forti, a leggere e scrivere, a differenza dei loro genitori. Questo fa la differenza anche in una vita familiare e nei tentativi di integrazione. Quando sono piccoli, i ragazzi sono libri su cui puoi scrivere pagine diverse, dobbiamo interrogarci su che pagine siamo capaci di scrivere. Ma dobbiamo investire perché ogni volta che qualcuno ce la fa è un successo per tutti».
Vale la pena di investire anche su preadolescenti con esperienze di microcriminalità? «Non è facile, ma se si lavora quotidianamente e seriamente se si da molto, si fanno percorsi belli. Certo, ci sono anche gli insuccessi, qualcuno dopo i 18 anni viene risucchiato dalla famiglia e magari inizia a entrare e uscire dal carcere».
Restano i pregiudizi dell’antitziganismo diffuso. «Ricordo una famiglia che avevamo aiutato ad ottenere una casa a cui i vicini lasciavano le chiavi per andare in vacanza chiedendogli di curarla perché in giro c’erano gli zingari. Loro non avevano detto di essere rom perché altrimenti si sarebbe eretto contro di loro un muro. Anche sui posti di lavoro e scuola si tace la propria origine per la stessa ragione. In Italia diversi cittadini rom hanno studiato e fatto percorsi anche straordinari. Si sono organizzati in associazioni, ma raramente possono esprimersi pubblicamente. A Milano e nelle altre città bisogna creare luoghi d'incontro con i residenti. Spesso bastano momenti anche semplici per abbattere i pregiudizi. Non è facile, ci vuole preparazione, fare la fatica di stare in mezzo a prendere colpi da destra e da sinistra. Ma vuol dire che sei nel posto giusto».
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