martedì 18 settembre 2018
Cafiero de Raho: «I Casalesi e la strage razzista dei migranti. La camorra non è ancora sconfitta»
18 settembre 2008. A Castel Volturno morirono 6 persone: un giovane si salvò fingendosi morto

18 settembre 2008. A Castel Volturno morirono 6 persone: un giovane si salvò fingendosi morto

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La "strage di San Gennaro" è stata una delle azioni più violente della camorra casertana. A commetterla, la sera del 18 settembre 2008, furono cinque esponenti dell’ala bidognettiana del clan dei Casalesi. Strategia stragista e terroristica, guidata dal boss Giuseppe Setola per rivendicare il controllo del territorio: 17 morti in sei mesi. Furono sparati più di 130 colpi con pistole e kalashnikov contro alcuni immigrati che si trovavano dentro e fuori la sartoria Ob Ob Exotic Fashion a Ischitella, frazione di Castel Volturno. Vennero uccisi Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams del Ghana, El Hadji Ababa e Samuel Kwako del Togo, Jeemes Alex della Liberia, quasi tutti con permesso di soggiorno per motivi umanitari. Joseph Ayimbora, anche lui del Ghana, sopravvissuto fingendosi morto, nonostante la mitragliata di colpi che lo aveva centrato alle gambe e all’addome, riuscì ad avere il tempo di guardare in faccia chi gli aveva sparato e altre due persone e la sua testimonianza fu decisiva per riconoscere gli autori della strage. Gli assassini sono stati tutti arrestati e condannati per strage con l’aggravante dell’odio razziale: ergastolo per Giuseppe Setola, Davide Granato, Alessandro Cirillo e Giovanni Letizia, 28 anni per Antonio Alluce. L’indomani della strage, il 19 settembre, centinaia immigrati inscenarono una protesta, anche violenta, contro la camorra e le condizioni di degrado in cui vivevano. Ne parliamo col procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che abbiamo intervistato in occasione della Summer school di giornalismo investigativo organizzata a Casal di Principe dall’Ucsi e Agrorinasce.

«Fu una strage razzista, per dire agli immigrati che dovevano andarsene da quel territorio». Così ricorda la strage di dieci anni fa Federico Cafiero de Raho, oggi Procuratore nazionale antimafia, allora procuratore aggiunto a Napoli, uno dei 'nemici' più temuti del clan dei Casalesi che commisero quel gravissimo delitto «per rivendicare il controllo del territorio». Ma grazie al contrasto delle istituzioni e alla reazione dei cittadini «fu l’inizio della loro sconfitta», che «però non è ancora definitiva. Va trovato il loro 'tesoro', vanno scoperte le articolazioni economicofinanziarie che ancora procurano soldi». E poi, denuncia il procuratore, «Castel Volturno è ancora un problema e bisogna intervenire per restituire dignità alle persone che lì vivono». Proprio quelle che la camorra voleva cacciare.

Procuratore, cosa rappresentò quella strage?
Fu uno dei eventi più significativi del controllo del territorio del clan dei Casalesi. Uccidere quei cittadini immigrati significava non tollerare la loro presenza e dire 'qui comandiamo noi e chiunque voglia operare deve farlo solo attraverso il nostro consenso'. Il clan aveva dei progetti importanti di reinvestimento sul territorio e per loro questo veniva impedito dalla presenza degli extracomunitari. Così era stato detto loro di allontanarsi da Castel Volturno: non lo avevano fatto e vennero colpiti. È una delle dimostrazioni più chiare di quanto il clan dei Casalesi sia stato violento e privativo di ogni libertà per chiunque abbia abitato il loro territorio.

C’era una componente razzista in quella strage?
Nell’ambito di quell’attività criminosa, la componente razzista era rappresentata dalla volontà di escluderli dal territorio solo perché erano di razza diversa, ritenendoli addirittura soggetti che occupavano abusivamente il territorio. La camorra voleva limitare totalmente la loro libertà. Vederli lavorare in quei locali, come la sartoria o altre attività artigianali senza il consenso del clan era contrario a quello che era stato detto loro. E ancora una volta il clan manifestò la propria forza e la propria violenza. Era il momento in cui doveva tirar fuori la peggiore cattiveria proprio per manifestare la prosecuzione del loro potere che invece stavano perdendo.

Sono passati dieci anni, allora Castel Volturno diventò famosa, anche grazie alle proteste successi- ve dei migranti. Ma ancora oggi è una realtà difficile di sfruttamento, degrado, difficile integrazione.
Castel Volturno è ancora un grande problema anche perché c’è una criminalità nigeriana molto forte che gestisce sia il traffico di droga che la prostituzione.

Col consenso della camorra?
La camorra di Castel Volturno controlla e nessuna altra criminalità può operare senza il suo consenso. Addirittura quella nigeriana paga il pizzo per poter sviluppare le sue attività criminose.

Ma è solo responsabilità della criminalità?
Al di là del deterioramento del territorio, delle condizioni in cui vivono gli immigrati proprio perché condizionati dalla loro criminalità, esiste una situazione rispetto alla quale è ora che si intervenga per restituire dignità alle persone che lì vivono.

La strage fu sicuramente il momento più violento assieme all’omicidio dell’imprenditore Mimmo Noviello, sempre a Castel Volturno e pochi mesi prima. Cosa è cambiato in questi dieci anni?
Tra aprile e ottobre 2008 il clan dei Casalesi commise omicidi e stragi. Uccise parenti di collaboratori di giustizia, imprenditori che avevano denunciato, gli immigrati che continuavano a stare sul territorio nonostante l’ordine che avevano avuto di lasciarlo. Contemporaneamente il clan vedeva che andava avanti il processo al suo gotha, così come numerosi erano stati gli arresti, gli ergastoli, i beni confiscati. C’era sostanzialmente un indebolimento del clan, quasi una sconfitta. Ecco perché il gruppo di Setola venne incaricato di commettere dei fatti gravi, proprio per riportare il territorio sotto il controllo del clan. Via via erano iniziate le denunce e bisognava bloccare questa speranza del cambiamento.

Ma il risultato fu opposto...
Ci fu un’azione di contrasto fortissima che poi ha determinato l’arresto di oltre cento camorristi, quelli del gruppo Setola. Sono stati arrestati gli autori di tutti gli omicidi e le stragi commesse in quel periodo, e sono stati sequestrati e confiscati tutti i loro beni. Così quella che doveva essere l’azione di ripresa del clan dei Casalesi, si rivelò una vera e propria sconfitta. Da allora sono proseguite le attività di contrasto da parte dello Stato e via via il territorio è stato liberato in gran parte dalla camorra.

Ma si può parlare di una sconfitta definitiva? Ci sono state tante collaborazioni e questo conferma come il clan si sia indebolito ma il contrasto giudiziario non si deve fermare anche perché la criminalità è sempre presente, e dispone di una ricchezza che il clan ha accumulato negli anni. Per questo le nuove collaborazioni saranno significative per scoprire quei settori che non sono stati ancora ricostruiti esattamente. Ma non è sufficiente ricostruire quello che è accaduto, è necessario comprendere quale è il tesoro dei Casalesi, dove si trova, da chi è costituito, quali sono le articolazioni economico-finanziarie che ancora procurano soldi, con chi il clan ha investito. Quando si risponderà a queste domande si potrà dire che il clan dei Casalesi non esiste più.

In questi anni è cresciuta anche la reazione della società civile. Quel momento fu un passaggio anche da questo punto di vista?
Certamente. Si è presa consapevolezza che insieme si può vincere. Ci sono stati tanti soggetti affidabili ai quali la gente si è potuta rivolgere nel momento in cui ha avuto bisogno, ci sono state tante occasioni di confronto pubblico alle quali hanno partecipato tante persone, ci siamo contati e abbiamo visto che il numero di quelli che erano contro la camorra è cresciuto sempre di più. E questo ha determinato la possibilità per tanti di venire allo scoperto e mostrare il proprio volto. Credo che la più chiara dimostrazione di quanto sia cambiato il territorio deriva proprio da questo, dal fatto che quando ci sono incontri la partecipazione delle persone non è formata solo da appartenenti alle forze dell’ordine, come avveniva una volta, ma da cittadini che spontaneamente partecipano con il piacere di partecipare.

Dunque la gente ora c’è, parla?
Il silenzio, l’omertà sono il connotato delle associazioni mafiose che le rendono forti. Proprio su questo bisogna incidere, però per farlo è necessario rendersi affidabili. Quando le persone che hanno subito violenze e soprusi capiscono che le istituzioni cominciano ad agire, si fidano e decidono di denunciare. La gente ha bisogno di vicinanza, di capire che si affrontano i problemi.

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