mercoledì 31 luglio 2013
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​«Caro figlio, non pensare che la vita ci è ostile, si raccoglie quello che si semina e noi non siamo dei buoni contadini». Così scrive un detenuto del carcere di Carinola, nel Casertano, al figlio anche lui carcerato. Ma la storia cambia e proprio tra queste alte mure dei semi stanno crescendo e daranno buoni frutti, prodotti del lavoro di "buoni contadini", detenuti e volontari, carcere e società civile insieme. Un risultato che si tocca con mano nei due ettari di girasoli che ondeggiano a una leggera brezza. Ma è solo il primo passo. Progetto "Semi di responsabilità", nato dalla collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria il Comitato don Peppe Diana, Libera Caserta, la cooperativa Carla Laudante e col sostegno di Agrinsieme Campania. Il territorio che propone e il carcere che risponde positivamente.Una storia che riparte. Questo carcere, infatti, nasce nel 1983 come colonia agricola, più di sei ettari di buona terra, una vigna, mezzi agricoli e perfino un’enorme serra. Poi l’emergenza criminalità organizzata lo ha trasformato in un carcere di massima sicurezza. E quei campi non sono stati mai seminati. Fino a quest’anno quando, dopo la trasformazione in carcere a sicurezza attenuata, proprio i detenuti assieme agli agenti penitenziari e ai volontari hanno ripulito, dissodato, irrigato e sparso quei semi che ora stanno dando dei rigogliosi girasoli. Presto saranno revisionati trattori e seminatrici e rimessa in sesto anche la serra. E così dopo i girasoli, destinati alla produzione di energia da biomasse, arriveranno prodotti locali come le cicerchie e le fave da inserire nel "Pacco alla camorra", accanto ai prodotti delle cooperative che lavorano sui terreni confiscati alla camorra e a quelli degli imprenditori antiracket. Un’iniziativa del "modello casertano dell’antimafia sociale" di grande successo (quest’anno venduti ben 14mila "pacchi") che ora vedrà la new entry dei detenuti, una partecipazione che chiude il cerchio. E i prodotti saranno usati nelle mense delle scuole del comune.«È un nuovo intreccio, dalla confisca dei beni alla confisca dei detenuti che come i beni devono essere tolti alle mafie e riportati sulla strada della responsabilità – spiega Alessandra Tommasino del Comitato don Peppe Diana –. Un’alternativa al sistema criminale partendo proprio dal carcere e dalle buone pratiche». Come, a settembre, la ristrutturazione, sempre fatta da carcerati e volontari, delle aree verdi all’interno del carcere che saranno destinate a orti sociali e ai colloqui coi parenti per i detenuti che ottengono premialità per buona condotta: altra cosa che i freddi e anonimi parlatoi. E ancora la nascita di un piccolo birrificio artigianale dove lavoreranno detenuti e volontari, utilizzando orzo e luppolo coltivati sui terreni. E un’iniziativa per recupero e riciclo delle plastiche, proposta dal direttore del Consorzio Polieco, Claudia Salvestrini e subito accettata dalla direttrice del carcere Carmen Campi.Porte aperte, dunque. Ne è ulteriore segnale il Festival dell’impegno civile, organizzato dal Comitato e da Libera sui beni confiscati, che quest’anno ha fatto tappa anche nel carcere. Nello stesso spirito del progetto agricolo. «La squadra del carcere collabora con voi – sottolinea la direttrice –, scambi di passioni e emozioni. Il modello casertano del contrasto alla camorra è un concerto di istituzioni. Mancava il carcere, ora c’è. Ed è un importante rapporto col territorio». Ne è convinto anche il sindaco di Carinola, Luigi De Risi. «Per anni siamo stati la città del carcere, ora il carcere si apre e noi siamo pronti perché l’accoglienza l’abbiamo nel Dna. Potrebbe essere anche un’occasione – propone – di integrazione coi nostri cittadini in difficoltà, con chi ha perso il lavoro». Carcere e territorio. Perché, come insiste Simmaco Perillo della cooperativa "Al di là dei sogni" che su un bene confiscato opera con malati di mente, compresi ex Opg, «questo è un laboratorio di vita, di dignità, di libertà. Qui le persone sembravano finite. Ricordiamo che non ci libereremo mai dalla camorra se in questo circuito di libertà non tireremo dentro anche i detenuti». Un concetto che riprende Luigi Pagano vice capo del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). «Non c’è terra di nessuno. O c’è legalità o non c’è. Anche in carcere. Altrimenti restituiremo i detenuti peggiorati. O ci siamo noi o c’è qualcun altro che recluta manovalanza. Con l’assurdo che noi intanto spendiamo soldi». Ecco perché «c’è l’orgoglio per questa iniziativa che fa entrare la società nel carcere e questo, vi assicuro, altrove non c’è: si aprono le porte e fuori non c’è nessuno». Un progetto che guarda al dopo. «Non dobbiamo solo controllare dei corpi ma restituirli alla società, operando per un reinserimento. Ricordiamo che ogni persona recuperata è un pericolo in meno per la società. Quindi questo non è assistenzialismo ma un vero investimento in sicurezza. Questo è il segno e il sogno che vogliamo dare. E in questa terra così difficile è ancora più importante».<+copyright>
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