lunedì 12 aprile 2021
Lo studio del professor Remuzzi e dell’istituto Negri sull’uso degli antinfiammatori prima del tampone. Il Senato ha chiesto un nuovo protocollo. Possibile un crollo delle degenze in ospedale
Cure domiciliari, si muove la politica
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La notizia è passata un po’ sotto silenzio nel fiume di bollettini su contagi e vaccini, ma è l’altra faccia di un quadro che a marzo ha visto in Italia il poco prestigioso primato del maggior aumento di morti e che vede ancora i nostri ospedali (e soprattutto le terapie intensive) drammaticamente affollati. Riempiti anche - in parte - da ammalati che, forse, potrebbero essere curati a casa in modo più tempestivo e adeguato di quanto sovente non si sia fatto finora.
La novità è che giorni fa, giovedì scorso, il Senato ha chiesto e votato pressoché all’unanimità (e già questa sarebbe una notizia), accogliendo un ordine del giorno di tutti i gruppi a cui il sottosegretario alla Salute Sileri ha dato parere favorevole, l’arrivo di un nuovo protocollo unico nazionale per la gestione domiciliare dei pazienti Covid-19. Un passaggio importante per allentare la pressione sull’intero sistema sanitario, consentendo quindi agli ospedali di riprendere gradualmente gli interventi nelle altre patologie. Anche politicamente e istituzionalmente è un passaggio rilevante, perché lo Stato assumerebbe un ruolo di indirizzo evitando che le Regioni vadano in ordine sparso.
Oggi sono oltre 493mila gli italiani che stanno in isolamento domiciliare, perché contagiati. La maggior parte asintomatici, ma alcune decine di migliaia con sintomi. In attesa di un medico di famiglia che solo in rari casi interviene o, al massimo, di un’Usca, acronimo misterioso che sta per "Unità speciali di continuità assistenziali", solo fino a un certo punto più presenti. Come comportarsi con questi ammalati? Nel mirino è l’ultimo protocollo del ministero per le cure a casa, datato ormai 30 novembre 2020 e da diversi ritenuto superato: quello cosiddetto della "vigile attesa" e che di fatto prevede solo le classiche tachipirina e aspirina. Troppo poco. Alla base della decisione del Senato c’è anche un’altra novità passata senza troppo clamore: la conclusione di uno studio dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e della sua squadra di ricercatori, guidati dal professore Giuseppe Remuzzi, sul potenziale degli antinfiammatori nelle terapie domiciliari antivirus. Uno studio condotto, senza aspettare l’esito del tampone, somministrando da subito - alla comparsa dei primi sintomi - in luogo dell’aspirina farmaci come Nimesulid, Celecoxib, fino al cortisone ed, eventualmente, all’eparina. Lo studio ha messo a raffronto 90 pazienti trattati in questo modo e altri 90 ai quali era stato applicato il protocollo della "vigile attesa". I risultati sono stati sorprendenti: in sintesi, secondo quanto riportato per primo dal Corriere della sera, solo due pazienti su 90 (2,2%) del primo gruppo sono finiti in ospedale rispetto ai 13 (il 14,4%) dell’altro gruppo. I giorni trascorsi in nosocomio erano stati solo 44 contro 481 e i costi cumulativi di appena 28mila euro contro 296mila del secondo gruppo.
I limiti sono stati spiegati dallo stesso Remuzzi: per le regole vigenti non era possibile fare una ricerca «prospettica», cioè "randomizzando" a caso tot pazienti e spostandoli da un trattamento all’altro - metodo che sarebbe più efficace -, «potevamo fare uno studio solo retrospettivo, cioè andando a vedere come erano andati dei pazienti che avevamo selezionato per essere identici a un altro gruppo trattato con sistema tradizionale». Ovviamente, premette Remuzzi, sono sempre medicinali per i quali va evitato il "fai da te" e che vanno presi sempre sotto la guida di un dottore. Vale soprattutto per il cortisone, al centro di un forte dibattito scientifico e per il quale lo stesso Remuzzi ricorda che «non va mai preso prima di 8 giorni» dai sintomi iniziali, perché può portare altri scompensi.
I risultati, in ogni caso, hanno fatto riflettere i senatori, tanto che tutti si sono coalizzati mentre, all’inizio, i partiti più battaglieri erano solo Lega e M5s. Cioè quelli più vicini al comitato, formato da medici di base e cittadini e attivo sin da marzo 2020, che porta avanti questa battaglia e ha creato anche un sito (www.terapiadomiciliarecovid19.org). L’ordine del giorno chiede al governo in primo luogo di aggiornare, tramite l’Istituto superiore di Sanità, l’Aifa e Agenas (l’agenzia dei servizi sanitari regionali) «i protocolli e le linee guida per la presa in carico domiciliare da parte di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e medici dei territori dei pazienti Covid, tenuto conto di tutte le esperienze dei professionisti impegnati sul campo». In secondo luogo di istituire un «tavolo di monitoraggio ministeriale in cui siano rappresentate tutte le professionalità coinvolte nei percorsi di assistenza territoriale» e in terzo luogo di «attivarsi affinché le diverse esperienze e dati clinici raccolti dai servizi sanitari regionali confluiscano in un protocollo unico nazionale di gestione domiciliare del paziente Covid-19». Infine il governo dovrà «affiancare all’implementazione del protocollo nazionale un Piano di potenziamento delle forniture di dispositivi di telemedicina» per «un adeguato e costante monitoraggio dei parametri clinici dei pazienti». Il punto centrale è che l’avvio tempestivo di cure "opportune", nei primi 7-10 giorni, può arginare di molto la diffusione del virus. Una prospettiva che, se confermata e avvalorata da nuovi studi, potrebbe ribaltare la storia del coronavirus. Anche se, disgraziatamente, i tantissimi morti restano sulle nostre spalle.
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