mercoledì 28 marzo 2018
Il 6 maggio la terra trema: interi paesi rasi al suolo, mille morti. I dubbi su un nuovo Belice. «No, qui presto rinascerà tutto». E così è stato
Una sopravvissuta del terremoto in Friuli si aggira tra le rovine di Tarcento (Ansa)

Una sopravvissuta del terremoto in Friuli si aggira tra le rovine di Tarcento (Ansa)

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Ci sono alcuni, pochissimi eventi di cui ricordiamo perfettamente dove eravamo, e cosa stavamo facendo, quando accaddero. Come chi si trovava nel nord e nel centro Italia alle 21 del 6 maggio 1976, quando la terra tremò e distrusse il Friuli.

Il giorno dopo su Avvenire appena poche righe con le prime, frammentarie notizie della notte: il giornale è andato in tipografia troppo presto. Ma l’8 maggio gli inviati sono sul posto e l’informazione è completa. «Interi paesi rasi al suolo nel Friuli. Estratti dalle macerie 700 morti. I senzatetto sono centodiecimila», ma «il tragico bilancio cresce di ora in ora» (alla fine si conteranno 989 vittime). Da Udine l’inviato Claudio Guglielmetti scrive: «Il momento della paura non è ancora passato. I servizi di soccorso intanto non si concedono tregua (...), sulla zona operano formazioni di volontari». L’altro inviato è Enzo Ferraiuolo: «Ecco il nostro Guatemala. È lì con le sue distruzioni, le sue macerie, le sue lacrime. Qualcuno lo chiama già il "Belice del settentrione" anticipando il timore che le migliaia di senzatetto dovranno vivere per anni nelle baracche e saranno costretti a marciare sulla capitale per indurre i potenti a muoversi. Si tratta forse di un giudizio un po’ avventato».

Sappiamo com’è andata. Nel disastro, è andata bene. Il Friuli si è risollevato, un’intera regione si è rimboccata la maniche e la ricostruzione sarà un modello purtroppo rimasto isolato. Ma nelle prime ore è palpabile il timore che accada come in Sicilia. «Necessario far presto» è il titolo del commento di Guido Bossa, che risente del clima politico (manca appena un mese alle elezioni anticipate, siamo in piena campagna elettorale): «In un dramma come quello che si è aperto l’altra notte, una coscienza cristiana non può non vedere anche un avvertimento per tutti: il richiamo, cioè, a dimenticare per un momento le beghe della vita quotidiana, le meschine contrapposizioni di interessi, le liti per effimeri privilegi; e a unirsi coralmente attorno ai fratelli più colpiti. E qui sorge un interrogativo drammatico: riuscirà questo Paese lacerato e in crisi a far fronte all’emergenza?». Bossa intuisce che la tragedia, nel dolore di tante morti e tanta distruzione, può diventare un’occasione: «Siamo tutti davanti a un’imprevista possibilità di recuperare quelle doti di fraternità e solidarietà umana che da anni sembravano non aver diritto di cittadinanza in Italia».

Un dato rilevante del terremoto è la numerosa, immediata e spontanea partecipazione di volontari. «Il Paese in soccorso al Friuli distrutto» è il titolo del 9 maggio, con questo sommario: «Più di mille scout da ogni città d’Italia. Il commovente slancio di generosità dei giovani che hanno lasciato i libri e le famiglie per accorrere sul posto della tragedia». Scatta anche la «cristiana solidarietà»: la Cei stanzia subito 30 milioni di lire, altri 50 arrivano da Paolo VI, una giornata di preghiera è indetta per la domenica successiva. Anche Bossa si sofferma sul dato di fede: «La religiosità dei friulani è il loro segreto; una religiosità che rifugge dalle manifestazioni esterne clamorose, ma che si fa alimento di vita intima, familiare, sociale, che reca conforto e consolazione».

I friulani non piagnucolano, intendono fare da sé. «Dateci due anni e ricostruiremo tutto di nuovo» è il titolo della corrispondenza di Francesco Dal Mas: «La terribile tragedia non ha piegato la volontà delle popolazioni friulane (...). Questo piccolo mondo aveva tutto. Il mare, i monti, i laghi. "Un piccolo compendio dell’universo" lo aveva definito Ippolito Nievo (...). Ora questo piccolo mondo è diventato un compendio solo di morte, di dolore, di disperazione». Tutto è andato giù. «Gli unici a salvarsi sono stati i geometrici fazzoletti di vigneti e colture lavorati con certosina accuratezza dai contadini del posto. Ma potranno dare, da soli, un futuro a tutta questa gente?».

L’11 maggio Guglielmetti riferisce della Messa celebrata da Alfredo Battisti, arcivescovo di Udine, nel piazzale delle corriere di Tolmezzo: «Ciò che il Friuli offre oggi al mondo – dice Battisti – è innanzitutto un messaggio di dolore. Questo vostro dolore, cari fratelli friulani, l’avete espresso con una forza e una dignità incredibili». Ferraiuolo, da parte sua, sottolinea ancora una volta la determinazione della gente friulana: «Sa che, ancora una volta, è venuto il momento di rimboccarsi le maniche e di ricostruire quel che la sciagura ha spazzato via in un soffio». Nei giorni successivi l’inviato celebrerà «gli straordinari ragazzi della Brigata Ariete», poi «i cinquecento soldati tedeschi che stanno spazzando Gemona». Confida un muratore: «La sciagura è più grande perché adesso le campane stanno zitte». Ricorda Massimo Infante: «Distrutte nella sola diocesi di Udine quattrocento chiese». Il 19 maggio Robi Ronza comincia così un suo lungo commento, felicemente profetico: «Vive Gemoie, mai daur (Viva Gemona, mai indietro): il motto in lingua friulana del battaglione alpini Gemona torna alla memoria con commozione».

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