mercoledì 15 febbraio 2017
A Milano nella casa di reclusione all'avanguardia. Il presidente della Camera Boldrini: esempio da estendere in tutta Italia
Viaggio con i detenuti nelle celle aperte di Bollate: da qui si deve ripartire
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Sul corridoio, lungo quasi un chilometro, non c’è traccia di sbarre. Niente cancelli, da aprire con chiavi spesse di ottone a ogni passaggio. Niente presidi di agenti, fermi lì a girarle, le chiavi. Un ragazzo coi capelli lunghi e un lupo sulla maglietta rallenta per salutare: il tesserino al collo recita 'Marco, quarta sezione, area trattamentale'. Chi è, da dove viene, dove va: questo basta, nel carcere di Bollate. Per tenere le porte delle celle aperte, per permettere ai detenuti di uscire dalle sezioni e darsi da fare, per dare un senso alle loro giornate.

Che sia una specie di miracolo nel panorama carcerario nazionale, questo angolo della periferia milanese affacciato su quel che resta di Expo, qui lo sanno tutti bene. Normale, che i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria e pure quelli delle aziende vicine facciano la pausa pranzo nel ristorante gourmet gestito dei detenuti (la mattina ci si ferma prima di entrare per prenotare i posti, che altrimenti non si trovano). Normale, l’asilo nido frequentato dai figli degli agenti, da quelli delle detenute e da quelli delle famiglie di Bollate (la struttura, come il ristorante, è aperta anche a chi viene da fuori). Normale, che nei capannoni si aggiustino macchine da caffè, si gestisca il customer service di un colosso come Wind, o che si allevino cavalli, si coltivino piante, si studi la letteratura russa e si faccia teatro. Lavoro, stipendio, permessi, ferie. Quando l’hanno spiegato al presidente della Camera, Laura Boldrini, ieri mattina in visita alla struttura, lei ha sgranato gli occhi e ha cominciato a fare domande. Possibile? Sì. Allora «questo è un modello – dice lei – e questo modello va esteso. Qui si fa sicurezza in modo intelligente perché si dà la possibilità a chi entra di uscire migliore». La ricetta, per il direttore Massimo Parisi, è quasi un’ossessione. Non passa giorno che nell’ufficio al primo piano, sopra l’ingresso, non si svolgano briefing, riunioni, confronti: «E adesso? Adesso cosa possiamo fare?». Ammette di avere un sogno: «La piena occupazione. Che tutti i miei 1.180 detenuti lavorassero o fossero impegnati. Che il maggior numero di aziende entrassero qui dentro, per offrire formazione e lavoro». Oggi si accontenta del 50% della popolazione carceraria attiva (un record nazionale) e di almeno una decina di aziende che danno impiego a 200 detenuti in articolo 21: «Significa che al mattino si svegliano, si preparano, escono dal carcere per raggiungere un ufficio. E che la sera, finito di lavorare, ritornano».

Ma non basta, perché ci sono anche quelli che fanno volontariato: sistemano i giardini pubblici, imbiancano le scuole di Bollate, prestano servizio nelle residenze per anziani. E poi i 35 studenti universitari, la prima classe di alberghiero che quest’anno arriverà al diploma, i tirocini, gli stage. Risultato: il numero fra i più bassi di agenti a presidio della struttura (350) e una recidiva del 20% (che scende all’8% per chi segue progetti di lavoro specifici) contro il 68% nazionale. La misura dell’abisso tra due culture diverse dell’esecuzione penale, «tra il vedere il reato come una risorsa – continua Parisi – o come un peso». L’area industriale di Bollate è un azienda in piena regola. I telefoni che squillano, le saldatrici, i capannelli di colleghi che si confrontano. «Questo è il nostro miracolo », spiega Teresa aprendo la porta dello stanzone dei call center. La cooperativa Bee4 Altre menti, che dal 2013 lavora in carcere e che da ex detenuti è stata fondata, gestisce 34 dipendenti carcerati e 6 esterni dedicati al servizio clienti WindTre, altri 17 e due esterni per il servizio clienti Eviva spa, 14 detenute per l’assemblaggio e il controllo qualità di guarnizioni di gomma. «I loro stipendi – spiega il direttore della attività produttive della cooperativa, Pino Cantatore – variano da mille a 1.400 euro. Per loro significa potersi mantenere, non pesare sulle famiglie anzi in parte poterle sostenere, e ancora poter pagare i risarcimenti delle vittime dei reati che hanno commesso».

Regole, responsabilizzazione, dignità. Si scoprono così, in carcere. In altri casi si ritrovano. «Il lavoro cambia soprattutto i più giovani, quelli che in carcere arrivano a vent’anni magari, senza aver mai lavorato, senza saper fare niente», continua Cantatore. Uscirebbero per delinquere di nuovo. E invece quando viene il momento di uscire, da Bollate non vogliono andarsene. Per loro – per seguire il loro percorso fuori, per riempire il buco nero del post-pena – la Bee4 ha anche una sede distaccata, a Milano. Nella sezione femminile, che Boldrini ieri ha voluto visitare, vivono 106 detenute. «Sembra incredibile, ma qui è più difficile a volte realizzare progetti », spiega Cantatore. La maggioranza delle donne sono dell’Est Europa, moltissime rom e sinti: «La loro cultura rifiuta il lavoro, gli uomini le utilizzano per rubare». Anche qui però il lavoro finisce col fare la differenza: «Abbiamo 4 ex detenute che a fine pena ci hanno chiesto di restare. Sono libere, ma qui ogni mattina vengono a lavorare». Il fuori e il dentro che annullano le distanze, l’altro grande sogno del direttore Parisi: «La relazione è tutto, quella tra l’istituto e i detenuti, quella tra i detenuti e la società e quella tra i detenuti e la società. È nella relazione che la pena trova il suo senso sociale». Lui la chiama «contaminazione positiva». A Bollate è già realtà: per studiare e seguire corsi entrano studenti dei licei e delle università milanesi, manager e dipendenti delle aziende. «La pena fatta scontare senza prospettiva di futuro, la detenzione finalizzata a se stessa – ha ripetuto ieri Boldrini – non serve. Qui ho incontrato lo Stato nella sua forma migliore, qui ho visto l’espressione della nostra Costituzione».

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