
Affinati con alcuni compagni di viaggio all’Istituto Professionale Caselli a Siena - --
Da Milano a Roma, in un viaggio povero, lento e condiviso, lungo la Via Francigena, per raggiungere piazza San Pietro e consegnare una lettera al Papa. È il Cammino della Pace che ha visto protagonisti i ragazzi delle scuole Penny Wirton, una rete di 65 associazioni i cui docenti volontari insegnano gratuitamente italiano ai migranti. Eraldo Affinati, scrittore e fondatore nel 2008 con la moglie Anna Luce Lenzi della prima Penny Wirton romana, racconta ogni settimana una tappa di questo cammino. Condividendo gli incontri lungo la strada e le parole ascoltate. Le puntate precedenti sono su Avvenire.it/Opinioni.
Il risveglio al monastero di Cellole assomiglia a un balsamo spirituale nella solitudine degli spazi esterni sprofondati in una campagna sul punto di rianimarsi dopo il torpore notturno, che si aprono alla luce incipiente fra gli alberi circostanti come girasoli assetati di luce. Il mondo è bello e feroce, scriveva Andrej Platonov, lasciandoci immaginare come sia difficile distinguere nel suo incessante spettacolo, fuori e dentro di noi, il seme che muore da quello destinato a rinascere. Stamattina presto ho ritrovato, nella piccola stanza dove gli ospiti fanno colazione davanti alla macchinetta del caffé, col cesto di pane fresco posto al centro del tavolino, Karim, marocchino poco più che cinquantenne, di cui ricordavo il nome avendolo conosciuto quasi di sfuggita un anno fa, nel corso della mia prima visita alla pieve. È rimasto sorpreso che mi ricordassi di lui e così ci siamo abbracciati come se fossimo parenti stretti, anzi di più, nella visione extrafamiliare che in fondo ogni religione presuppone, collocando gli esseri umani nella figliolanza rispetto al creatore, alla quale dovrebbero aderire le Carte costituzionali del mondo intero, perlomeno se prendessero sul serio la fraternité scaturita dalla Rivoluzione francese come un pulcino democratico dal vecchio uovo umanistico.
Purtroppo sappiamo che non è così, tuttavia non dovremmo arrenderci all’evidenza della realpolitik, ecco perché Karim, che vive nel monastero facendo lavoretti negli agriturismi limitrofi, adottato dai monaci alla medesima stregua di un viandante esistenziale, mi offre una ragione di pace legata alle scelte che siamo chiamati a compiere, oltre i legami biologici, nell’estensione simbolica del sentimento di amicizia. Gli parlo del suo Paese, dove sono stato più volte, con una naturalezza e spontaneità difficile da praticare nella dimensione quotidiana: segno che sto introiettando il ritmo del viaggio forse mostrando a chi incontro la mia volontà di confronto più di quanto mi possa accadere normalmente; oppure dipende dal carattere dell’insegnante, portato per consuetudine professionale a conoscere la persona che sta davanti a lui, senza accontentarsi dei test di orientamento uguali per tutti gli scolari.
Ripartiamo in direzione di San Gimignano camminando in parte sul ciglio della strada, a volte rientrando rasente le vigne, alcune delle quali percorse da trattori, sono in piena ristrutturazione, finché raggiungiamo le torri svettanti del centro urbano. Come sempre mi accade durante la marcia, faccio in modo che le associazioni mentali mi attraversino liberamente, idee, emozioni, concetti, preparandomi a ricomporle quando sarò tornato a casa. Penso a Robert Francis Prevost, per la mia generazione questo è il primo Papa coetaneo, il che non può lasciarci indifferenti. Quando tanti anni fa visitai Chicago, sua città di nascita, la definii «una san Gimignano del Novecento». Mi colpì, come scrissi in seguito, il contrasto fra i grattacieli azzurri in cemento armato a picco sul lago Michigan e il rosso di Siena bruciato delle case costruite in epoche precedenti: queste ultime le trovi sul retro nei cortili degli edifici più alti. E proprio a Siena adesso siamo diretti.
Usciamo dalla cinta muraria scendendo verso il quartiere di Santa Lucia. Giunti all’altezza del grande parcheggio, svoltiamo a destra entrando in un mondo di boschi, prati e sassi. Ci affiancano altri pellegrini anche abbastanza anziani, eppure ben determinati. Arrivati davanti a un ruscello gonfio d’acqua, siamo costretti a toglierci scarpe e calzini per guadarlo a piedi nudi: una giovane che procede da sola non ci pensa due volte nel farlo, altri sono titubanti, c’è perfino chi torna indietro. Nell’ultimo tratto verso Colle Val d’Elsa il sentiero diventa un piccolo nastro asfaltato in mezzo agli ulivi: superato il cimitero, entriamo nel borgo antico e scendiamo in direzione dell’autobus dove un paio di ragazzi ivoriani ci aiutano a fare i biglietti per Siena, la città di Santa Caterina.
L’incontro all’Istituto Professionale Caselli, in via Roma, appena dopo Porta Romana, una delle scuole statali che il pomeriggio offrono gli spazi alla Penny Wirton locale, si rivela ancora più sorprendente di quanto prevedessi. Gli allievi, guidati da Fabio, ex docente di lettere, aspettano fiduciosi nelle aule dove solitamente fanno lezione uno a uno, pronti a consegnarci una serie di lettere imbustate che assomigliano al manoscritto dentro la bottiglia. Le lanciano verso di me come se rappresentassi il mare aperto. Quanta responsabilità nel raccogliere questi bagliori luminosi con l’intenzione di portarli a piazza San Pietro! Rachid, diciottenne del Burkina Faso, milanista sfegatato, frequenta, con dedizione superiore alla norma, il Cpia, centro provinciale per l’istruzione degli adulti, ma vuole studiare anche dopo la terza media, avendo compreso ciò che molti suoi amici rimasti in Africa ancora non sanno: solo imparando a leggere e scrivere potrà emanciparsi e diventare davvero grande. Oran, pachistano, come l’orange juice, precisa, così non te lo dimentichi, anzi meglio, «spremuta», aggiunge con impareggiabile humor britannico, in riferimento ai colonizzatori del suo Paese, fa il barista alla stazione ferroviaria e quando gli chiedo della pace non trova di meglio che elencarmi tutti i tipi di cornetti che è in grado di offrire ai suoi clienti: ai cereali, al miele, integrale, con la crema, la marmellata, vegano, vuoto… Poi i caffé: espresso, americano, ristretto, macchiato, marocchino, al vetro… Ride mentre recita la lista per dimostrarmi che ha imparato alla perfezione la nostra lingua. Non solo quella. È stato otto anni ad Atene, conosce il greco come l’italiano. Sta perfezionando l’inglese e vuole apprendere lo spagnolo e il francese. Questi idiomi gli servono perché il suo mestiere lo mette a contatto con persone di tutto il mondo. E che dire di Houssein, afghano azara che lavora come cuoco al ristorante “Il ghibellino”? Quando scopre che sono di Roma, mi dice che lui sa preparare la carbonara più buona di Siena.
La giornata finisce nella parrocchia di San Quirico dove in un grande spazio polivalente ci sistemiamo intorno a un tavolo e tutti chiedono a una signora peruviana di alzarsi in piedi in onore di papa Leone XIV, lei sorride compiaciuta senza riuscire ad aprire bocca ma i suoi occhi splendenti valgono più di cento parole. Ci rimettiamo a sedere per ascoltare un trittico di voci multietniche chiamate a recitare il terzo canto del Paradiso, in verità non sarebbe facile neppure per un madrelingua italiano, figuriamoci loro! La parte di Piccarda Donati, rapita dal fratello Corso nel convento di Santa Chiara a Firenze, dove avrebbe voluto farsi monaca, per essere data in moglie a Rossellino della Tosa, uno dei Neri più violenti, viene affidata a una timida adolescente tunisina: «Io fui nel mondo vergine sorella; / e se la mente tua ben sé riguarda, / non mi ti celerà l’esser più bella, / ma riconoscerai ch’i son Piccarda…».