venerdì 7 agosto 2009
Rimanere nella clandestinità o accettare stipendi decurtati? Dilemma drammatico per tante badanti dell’Est, che a settembre verranno penalizzate dal prezzo troppo alto imposto alle famiglie per metterle in regola.
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Le trovi lì sedute sotto gli alberi all’ombra delle Terme di Diocleziano a parlare di cosa succederà dei loro sogni, se le famiglie per cui lavorano in nero non le metteranno in regola a settembre. Basta passare qualche ora con le badanti moldave che a decine si incontrano vicino la stazione Termini, per capire che saranno gli immigrati a rischiare di pagare il prezzo più alto di questa sanatoria. Hanno tra i 20 e i 50 anni, spesso sono sole con figli in Moldavia che crescono tra le braccia amorevoli dei nonni. Non rientrano a casa da anni, «troppo rischioso» dicono, e poi dovrebbero ripagare 4mila euro per tornare in Italia da clandestine, il che significa «metterci un anno per saldare il debito». Sono qui per lavorare, ma non ci stanno ad essere sfruttate e soprattutto ricattate. La maggior parte parla vincendo la paura, ammettono di essere clandestine e probabilmente lo rimarranno anche dopo settembre.La comunità moldava in Italia conta circa 70mila regolari, di cui 8mila nel Lazio e 6mila solo a Roma, ma con i clandestini il numero potrebbe quasi raddoppiarsi. Più del 60% sono donne, impiegate soprattutto come colf e badanti. Questo esercito di braccia è al centro del provvedimento del governo che permette di regolarizzarle da settembre. Il prezzo da pagare per la loro assunzione, però, è troppo alto per molte famiglie italiane: una tantum di 500 euro al momento della domanda di emersione e i contributi in futuro. «Gli anziani per cui lavoriamo – spiega Raisa, una donna minuta sulla cinquantina – hanno pensioni basse e non possono permettersi di pagare tanti soldi». Per questo, aggiunge, preferiscono mandarci via e magari prendere, in nero e a costo minore, le rumene che non hanno problemi di permesso di soggiorno. I grandi occhi scuri di Raisa tradiscono emozione quando racconta la sua storia. Da sette anni in Italia, non vede i due figli lasciati a Chisinau da cinque, ora è senza lavoro; l’anziana che serviva a Roma per 700 euro al mese ha preferito licenziarla pur di non metterla in regola. «Non mi conviene, è stata la risposta quando le ho chiesto il contratto, – dice – con i soldi che devo pagare a te tra stipendio e contributi vado in una casa di riposo».Non manca la determinazione a queste donne fuggite dalla loro casa in cerca di una vita migliore. Pur di non restare senza lavoro si accontentano di stipendi da fame e perfino ricatti, «almeno così potrò mandare i soldi ai genitori in Moldavia per far crescere e studiare i miei figli». Svetlana ha 34 anni, è vedova e ha lasciato la sua città, Balti, quando la sua bimba minore aveva un anno; non la vede da quattro, «quando tornerò non mi riconoscerà neanche», confessa piangendo. «La famiglia dove lavoro mi ha detto che se voglio il contratto – confessa – mi scalerà dallo stipendio i contributi che mi versa, i costi per fare la domanda e tutte le spese che dovrà sostenere». Il che significa, aggiunge, che dei 750 euro che percepisco, me ne rimarrebbero meno della metà, «questo mi consentirebbe di tornare ogni tanto a casa, ma non di mantenere i miei figli». La soluzione per lei è dunque obbligata: abbassare la testa e rimanere clandestina, «con la paura di essere scoperta ad ogni passo».Quando la voglia di quel pezzo di carta che permette di tornare nel proprio Paese è tanta, però, sono altri i compromessi da mandar giù; come accontentarsi di stipendi da fame e pagarsi da sole i contributi. Il volto stanco di Ana dimostra più dei suoi 45 anni, le mani sono quelle di una donna che ha faticato nella vita, ma la sua determinazione la porta sempre a guardare avanti. «Da settembre probabilmente non mi rimarranno più di 3-400 euro dello stipendio – sottolinea – visto che l’unico modo per essere messa in regola è quello di accollarmi io tutte le spese extra dei contributi». Almeno, continua, non mi sentirò più dire che «visto che non ho contratto, non ho diritti e posso essere mandata via in ogni momento».La soluzione più diffusa, tuttavia, è quella di regolarizzare le collaboratrici familiari per un orario settimanale inferiore a quello effettivo. Sarà così per Natalia, una quarantenne moldava da sette anni nel nostro Paese: un contratto di 600 euro al mese per un lavoro in teoria part time, in pratica di 16 ore al giorno. «Così la famiglia risparmia – spiega in un italiano sgrammaticato – e io potrò tornare a Orhei almeno ogni due, tre anni». Tanti problemi, ma loro non si lamentano più di tanto, anzi sono grate l’Italia: «A casa nostra è peggio».
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