martedì 16 giugno 2015
Viaggio nelle parrocchie e nelle periferie, nella Roma che opera il bene e non fa notizia: «Il corrotto si sente Dio, conosce solo la sua legge». «Ora chiediamo risposte forti». ANALISI Contro la corruzione Francesco chiama tutti ad essere protagonisti (Mimmo Muolo)
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Vuole scrollarsi di dosso l’etichetta di città dalle fondamenta marce. Roma Capitale non è solo il sistema messo in piedi da Buzzi e i romani non sono tutti in cerca di un "gancio giusto" per arrivare a un posto fisso. Te ne accorgi girando nei quartieri della città, nei mugugni della gente che scuote la testa la mattina nei bar, sfogliando il quotidiano. E te ne accorgi parlando con i sacerdoti che ogni giorno con i romani hanno a che fare e continuano a raccontare di tanti germogli di solidarietà di cui sono testimoni. Di quella solidarietà che non fa quasi mai notizia. Quell’umanità sana e trasparente che crede nelle regole e nel bene comune. «Non si accende una luce per nasconderla. Ma per porla su un lampadario, perché illumini tutti». Don Ugo Quinzi parte da un’idea evangelica, semplice come le persone di cui si occupa. È cappellano della casa di cura neuropsichiatrica Samadi, alla periferia nord di Roma, lì dove le case lasciano spazio agli snodi autostradali. «C’è un sottobosco silenzioso di buone azioni, c’è tanto bene intorno a noi, altro che Mafia Capitale». Don Ugo, così, ha pensato di «farlo parlare», questo sottobosco, nel primo Festa della Solidarietà di Roma, dal 24 al 29 giugno a piazza San Giovanni. Le luci, come le chiama lui, sono tutte quelle associazioni che spontaneamente hanno sposato il progetto, fino a diventare oggi una ventina. Se infatti «non costruiamo momenti in cui il bene si mostra», è la sua ricetta per Roma, non si va da nessuna parte. La città, piegata dalle inchieste giudiziarie, però è tutt’altro che al tappeto. Bisogna perciò, è l’impegno che la politica come pure la Chiesa locale hanno per il futuro, «ritrovare i germogli che Dio ha seminato negli uomini e stringersi intorno a loro», per accompagnarli in questo percorso di rinnovamento.Il Papa lo ha chiesto domenica da piazza San Pietro. E dal cuore di Roma la sua voce è arrivata a scuotere le coscienze in ogni angolo della città. «Dobbiamo continuare a far passare il messaggio che non ci si può piegare alle ideologie e alla corruzione». Don Stefano Matriccioni è il pastore della parrocchia di Sacri Cuori di Gesù e Maria, nel quadrante nord. I cittadini continuano a manifestargli «stanchezza, amarezza ed esasperazione» per quello che raccontano i giornali della Capitale, così «tendono a chiudersi in se stessi in atteggiamento di difesa», quasi a proteggere quel poco che sono riusciti a fatica a conquistare. Ma - il sacerdote lo ripete più volte - «come cristiani non possiamo piegarci» a tutta questa corruzione, al malaffare, a chi ha perso la «radicalità evangelica», ad un sistema clientelare che «si dimentica dei valori che sono umani prima che scritti nel Vangelo, come l’onestà». Le persone, è vero, si sentono deluse, arrabbiate. Chi fa del bene, poi, alle volte «si descrive come l’uomo che continua a mettere acqua pulita in un vaso sporco». Don Fabio Fasciani mentre parla ha in mente tutti i problemi della comunità di periferia che gli è stata affidata, la parrocchia di San Patrizio a Colle Prenestino, una borgata ad est della città. «Qui si fa fatica anche ad avere l’adsl», è l’esempio che don Fabio mette subito sul tavolo. «Ma allo stesso modo in molti sono convinti - continua - che l’acqua pulita poco alla volta ripulirà la melma che ora è sul fondo del barile». Certamente quando il manico della città sembra malato fino al midollo e quando «si fatica ad esigere i diritti basilari» una raccomandazione sembra la via più facile, «ma questo è un danno che facciamo a noi stessi», perché un "compare" da chiamare non ci sarà sempre.Dalla periferia tornando verso il centro la voglia di rimettere solide fondamenta morali alla città è sempre la stessa. La «sua finestra su Roma» è via Prati Fiscali, lì dove gli appartamenti della classe media romana lasciano il campo al più popoloso quartiere Nuovo Salario. Don Giampiero Palmieri, parroco di San Frumenzio, lo mette subito in chiaro. I romani sono «allibiti», «sdegnati» dalle inchieste, noi come guide spirituali «facciamo quotidianamente un lavoro culturale», di aggregazione e di «educazione alla legalità e alla convivenza». Ma ora tutti si aspettano «un segnale forte dalle istituzioni», ammette, altrimenti come si fa a controbattere «la logica di chi pensa che avere un amico potente lo mette al riparo da tutto». Non basta più perciò «essere testimoni credibili», adulti che «si fanno prossimi» per rimettere in cammino una città dai piedi d’argilla. Don Giovanni Carpentieri ne è convinto. Forte della sua esperienza nel quartiere Appio-Tuscolano con i giovani che salvano altri ragazzi dal pericolo di imboccare le scorciatoie dello sballo, non crede alle strategie calate dall’alto, ma «alla rinascita che passa dalla presa in carico ognuno del suo vicino, dal farsi samaritani per i malati che incontriamo lungo il cammino».Anche la filosofia del diritto può correre in aiuto, quando si vuole raggiungere la luce in fondo al tunnel. «La corruzione e l’illegalità endemicamente diffusa sono la negazione» dello Stato di diritto costituzionale, «la regressione della Stato di civiltà». Padre Ottavio De Bertolis, gesuita e docente alla Lumsa di Roma, non vede altre letture da dare di Mafia Capitale, quasi «una stanza i cui gli assi portanti stanno marcendo». Ma non ci sta a fare sconti ai corrotti. Sono uomini asserragliati «in un delirio di onnipotenza, si sentono Dio», legati a nessuna legge «che non sia la propria volontà», conclude. Così un po’ come i principi rinascimentali, «essi ripetono in sé la stessa onnipotenza divina: sono una bestemmia vivente».
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