mercoledì 30 gennaio 2019
Viaggio nella città che continua a morire di Eternit: ogni 7 giorni una nuova diagnosi di mesotelioma A prendersi cura dei malati, medici, fisioterapisti e volontari di Vitas. Ecco il loro impegno
Le donne simbolo di Casale Monferrato alla partita del cuore dello scorso aprile, organizzata per sostenere l'hospice. Da sinistra: la sindaca Titti Palazzetti, la responsabile dell’hospice Paola Budel, l’oncologa Daniela Degiovanni, la coordinatrice infermieristica di Vitas Paola Ballarino

Le donne simbolo di Casale Monferrato alla partita del cuore dello scorso aprile, organizzata per sostenere l'hospice. Da sinistra: la sindaca Titti Palazzetti, la responsabile dell’hospice Paola Budel, l’oncologa Daniela Degiovanni, la coordinatrice infermieristica di Vitas Paola Ballarino

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Per gli esperti è il “picco” delle morti di amianto. L’onda lunga di vittime dell’Eternit che – sembra un beffa – su Casale Monferrato ha iniziato ad abbattersi alla fine del 2015, e durerà un decennio. Così il mostro, seppellito per sempre sotto la “collina delle donne” del Parco Eternot, uccide adesso come non ha mai fatto prima: 50 nuove diagnosi di mesotelioma pleurico all’anno in città, una a settimana. E lutti, funerali, dolore senza fine.

Il mostro invisibile

I giornali non ne scrivono, la tv non ne parla, eppure la morte a Casale è la quotidianità. Anche oggi, qui, nella centrale piazza San Francesco su cui affacciano le finestre dell’associazione Vitas, e dentro Clara e Daniela si confrontano sul prossimo corso di formazione da tenere in una scuola. Psicologa la prima, oncologa in pensione la seconda – e simbolo della “lotta buona” all’amianto, un pezzo di storia della città –, si scervellano su cosa raccontare ai ragazzi che hanno perso l’ennesima mamma appena un paio di settimane fa, uccisa senza sapere da chi. «Sono i professori a chiamarci. I pazienti non sono solo quelli che si ammalano – raccontano le due donne –. I giovani, che l’amianto e l’Eternit li hanno visti solo sui libri, o sentiti raccontare dai nonni, uno ad uno dall’amianto e dall’Eternit vengono violentati in prima persona». Perdono i genitori, i cugini, in molti casi hanno già perso i nonni. Ai giovani, come ai pazienti, del mostro invisibile allora bisogna parlare.

La Vitas, nel lontano 1996, è nata così: dal paradossale miscuglio di morte e parola in cui prende forma la cura. «Allora io ero un giovane medico, travolto dalla scoperta di vivere nell’epicentro di un disastro» spiega Daniela Degiovanni, che da sempre paragona l’amianto al terremoto, ai bombardamenti. «Ricordo bene la fila di persone fuori dalla porta del mio studio, tanti operai della Eternit ma anche tanti cittadini. Lo scoprivano prima loro, di noi, che avevano il mesotelioma. La spina forte nel fianco, la mancanza di fiato. Ma volevano parlare, volevano qualcuno a cui chiedere, con cui piangere, su cui vomitare la rabbia di dover contare i giorni». Il medico allora non bastava più, per curare. O meglio, il medico doveva cambiare. «Dovevamo essere nella loro vita, rispondere al telefono nel cuore della notte, dovevamo uscire dall’ospedale e andare noi, a casa loro, se e quando necessario». Perché dal mesotelioma non si guarisce. Nessuno, mai.

Braccia, cuore e cura

Sui libri si chiamano cure palliative, qui Daniela, Paola, Laura, Alma, Pinuccia, Sabrina, Andrea, Dante, Simona, Nicoletta. La lista degli “angeli” di Casale è lunga, arriva a oltre 50 persone tra infermieri, fisioterapisti, volontari. C’è anche un sacerdote, don Oscar, che segue i corsi in associazione, ama la chitarra e si divide tra il catechismo in parrocchia, su sulle colline, e la sofferenza in corsia. Sono i pazienti ad averli chiamati così, e i loro familiari, assistiti a domicilio o nell’hospice nato nel 2009 contiguo all’ospedale grazie all’impegno di Vitas: «Quando stai male arrivano gli angeli – scrive Bianca in una lettera commovente appesa nella sede dell’associazione, che ha seguito sua figlia Valentina fino all’ultimo giorno di mesotelioma –. Anche se le ali sono ben nascoste li riconosci subito, sono vestiti di bianco, hanno le scarpe, ma in realtà volano, entrano, controllano».

Gli angeli sono quelli che non si fermano davanti alla condanna a morte dell’amianto, che l’hanno sperimentata sulla propria pelle. Come Stefano, il primo infermiere di Vitas, che a 9 anni vedeva suo nonno entrare in casa col cappello bianco di Eternit e in famiglia ha contato 4 morti di mesotelioma: «Piangevo, e intanto decidevo che avrei dedicato la vita a occuparmi di chi si ammalava». Nell’hospice, e nelle case dei pazienti, ogni giorno porta il rispetto per la dignità della persona, l’ascolto, la condivisione del dolore, il contatto fisico: «Si comincia da come si fa una puntura». Prendersi cura e guarire dalle malattie sono due cose molto diverse, «e qui si impara facendolo».

Dare vita al tempo che resta

Così nella cura, dove è impossibile dare tempo alla vita, si dà vita al tempo. Il giardino coi fiori e la fontana fuori dalla porta dell’hospice (dove i pazienti trascorrono le giornate di primavera, «e quanti soldi in medicine ci fa risparmiare»), il gazebo dove mangiare tutti insieme (sotto cui è stato celebrato anche un matrimonio tra un paziente e la sua compagna), la coppia di Golden per la pet therapy (Gilda e Azzurra sono un’istituzione per operatori, pazienti e visitatori), i desideri esauditi nell’ultima settimana dei pazienti (andare in collina, passare in banca, rivedere la stanza della propria casa, o semplicemente un film).

La Vitas segue 500 pazienti ogni anno, nell’hospice ne passano fino a 7 o 8 alla volta. Malati terminali, di mesotelioma soprattutto. E intanto dell’amianto, in città, non si smette di parlare: l’associazione organizza corsi di formazione, eventi pubblici in cui coinvolgere le autorità e le famiglie, raccolte fondi. L’ultima, la partita del cuore con la Nazionale cantanti giocata allo stadio lo scorso aprile, è servita proprio per l’hospice: che a causa di alcuni danni riscontrati nelle fondamenta ha dovuto improvvisamente traslocare nel corpo dell’ospedale, perdendo temporaneamente il suo giardino. «Dopo quella della Cassazione, quel giorno orribile in cui ci siamo sentiti tutti traditi dalla giustizia (il riferimento è alla sentenza del novembre 2014 che ha dichiarato prescritti i reati del primo processo, ndr) – racconta Degiovanni –, il trasferimento dell’hospice è stata la cosa che più ci ha fatto male in questi anni di impegno». La Regione e l’Azienda sanitaria hanno di recente stanziato i fondi necessari perché sanno che la “casa” dei malati di Casale conta. Le morti, intanto, non si arrestano. E gli angeli continuano a volare.

«E intanto la città aspetta ancora giustizia»

Si chiama “offerta di indennizzo”. La scritta, in un elegante corsivo blu, campeggia sul sito di una società svizzera, la Becon Ag, che opera su incarico dell’ex gruppo Eternit. «Lo chiamano “programma umanitario”. Prevede fondi per i malati di mesotelioma. Fino a 30mila euro», racconta Nicola. A Casale sono tanti, ad aver accettato. E, più o meno tacitamente, ad aver rinunciato a fare causa. Lui, Nicola Pondrano, li conosce tutti. I malati, le vedove, gli orfani. In Eternit ha lavorato, era il delegato sindacale della Cgil. Il primo a denunciare che di amianto si moriva. Fondatore dell’Associazione familiari vittime di amianto (Afeva), fino al 2011 presidente del Fondo nazionale vittime di amianto (di cui è ancora consigliere d’amministrazione), anima dell’esposto che ha portato alla prima grande causa contro Eternit, cancellata con un colpo di spugna dalla Cassazione nel 2014. E ora a Eternit bis.

Prescrizione. Quella parola ha cambiato tutto...
I giudici hanno detto a un’intera città che il reato per cui la gente continuava a morire – e continua, anche adesso, anche ieri, anche una settimana fa – aveva “esaurito la sua azione delittuosa”. E un’intera città s’è sentita presa in giro, e tradita dalla giustizia e dallo Stato.

Cosa è successo dopo?
Non ci siamo arresi. L’Eternit bis è ripartito dalla Procura di Torino, stavolta con l’accusa di omicidio volontario per l’imprenditore svizzero Schmidheiny (riqualificato poi dal Gup in omicidio colposo aggravato da colpa cosciente, ndr) ed è stato spacchettato in 4 filoni. Quello relativo alle morti di Casale Monferrato è toccato alla Procura di Vercelli: su quel banco sono finite 258 morti, a cui ora se ne sono aggiunte altre 95. Ora attendiamo la chiusura delle indagini.

In cosa sperate?
Che giustizia, infine, sia fatta.

Quante famiglie siete riusciti ad aiutare almeno col Fondo nazionale amianto, e come?
Il fondo, che è stato istituito nel 2007 ma reso operativo solo nel 2011, prevede un versamento di 5.600 euro una tantum ai lavoratori colpiti e anche alle cosiddette vittime civili. L’abbiamo versato a 20mila persone, tra malati e vedove. Ma non basta. Se fosse alzato a 12mila euro, considerando che il mesotelioma uccide mediamente in 12-14 mesi, riusciremmo a garantire 1.000 euro aggiuntivi al mese ai malati nell’ultimo anno della loro vita. È il nostro obiettivo.

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