Manuela, dall'inferno della violenza alla rinascita di Gustavo (e dell'amore)
Il matrimonio, la nascita di due figli, poi le botte e la denuncia. Il marito finisce in carcere, dove incontra i volontari della comunità di don Benzi. Ecco quello che è successo dopo

«Dovevo fermarlo. Per salvare me e mettere al riparo i nostri due figli. Per questo l’ho denunciato, non potevo permettere che continuasse a farci del male. Ma in cuor mio non volevo che la nostra storia finisse. E grazie a Dio non è finita». Manuela e Gustavo si conoscono in discoteca a Rimini, nel tempo fiorisce l’amore, nel 2005 il matrimonio e la nascita di due figli, poi arrivano le sopraffazioni, le violenze reiterate e subite da lei ma sempre taciute, tenute nascoste anche ai suoi genitori.
Fino a quando, dopo l’ennesimo litigio degenerato in violenza, la donna decide di raccontare tutto ai carabinieri. Scattano le manette, arriva una condanna per maltrattamenti familiari, Manuela si trova con due figli piccoli da mantenere e una ferita lancinante nel cuore, Gustavo finisce in galera. È lì che incontra i volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII e ottiene dalla direzione del carcere di scontare la pena in affidamento presso Casa Betania, la prima delle case famiglia aperte da don Oreste Benzi, dove inizia un percorso di espiazione e ravvedimento.
Fino a quando, dopo l’ennesimo litigio degenerato in violenza, la donna decide di raccontare tutto ai carabinieri. Scattano le manette, arriva una condanna per maltrattamenti familiari, Manuela si trova con due figli piccoli da mantenere e una ferita lancinante nel cuore, Gustavo finisce in galera. È lì che incontra i volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII e ottiene dalla direzione del carcere di scontare la pena in affidamento presso Casa Betania, la prima delle case famiglia aperte da don Oreste Benzi, dove inizia un percorso di espiazione e ravvedimento.
Anni duri e insieme fecondi, nei quali rivisita la sua esistenza segnata fin dall’infanzia da un padre violento e prigioniero dell’alcool, un’esistenza che ha lasciato in eredità cicatrici profonde e si è riversata nel rapporto con Manuela: «Ho dovuto fare i conti con il mio passato, la mia fragilità, una concezione malata del rapporto con la donna. Niente colpi di spugna, ho imparato che il dolore andava guardato in faccia per misurarsi con la sofferenza provocata a lei e ai nostri figli». In questo cammino è stato decisivo il lavoro fatto insieme a operatori, psicologi e volontari di Casa Betania seguendo il metodo Cec (Comunità educante con i carcerati) che affonda le sue radici nel carisma di don Benzi. «Nessun buonismo, chi ha sbagliato deve pagare, ma la pena deve tendere alla riabilitazione - ragiona Giorgio Pieri, responsabile dei progetti Cec che vengono realizzati in 10 case aperte in varie regioni -. A chi arriva in affidamento proponiamo percorsi per scoprire e rimuovere le cause che hanno portato alla carcerazione, e la nostra esperienza, alimentata dalla fede, testimonia che un ambito comunitario favorisce queste dinamiche. Si deve dare a tutti una possibilità di ripartenza, i risultati ci danno ragione: nelle nostre case la recidiva, che a livello nazionale è attorno al 70 per cento, crolla al 10 per cento. Qui la gente ritrova ragioni per cambiare e sperare».

Anche Gustavo le ha ritrovate e ne ha fatto il trampolino per la sua ripartenza e per aiutare le persone che in questi anni sono arrivate in comunità e hanno conosciuto vicissitudini simili alle sue. Dopo avere scontato la pena ha deciso di rimanere in comunità per continuare il suo percorso, rinnovando il «patto educativo» previsto dal metodo Cec, e oggi lavora come operatore alla Casa Madre del perdono, abitata anche da persone disabili (come è nello stile della Comunità Papa Giovanni) di cui ci si prende cura e che sono il vero tesoro nascosto di queste realtà. Uno in particolare, Marino, ha lasciato il segno nel cuore di Gustavo: «La sua semplicità, le sue follie, le sue debolezze mi hanno spalancato alla dimensione della gratuità. Mi hanno fatto comprendere che la fragilità ci riguarda tutti, appartiene alla natura dell’uomo e non dobbiamo vergognarcene. Le persone disabili ci ricordano chi siamo: persone che chiedono e donano amore, come Gesù ha fatto con quelli che incontrava. Servire le necessità di Marino è stata una lezione di vita, ho imparato quanto sono vere le parole di don Benzi: per stare in piedi bisogna mettersi in ginocchio».
Non è stato facile per Manuela il cammino della riconciliazione con il marito. Ha dovuto fare i conti con la paura, il dolore, la rabbia. «Ero arrabbiata con lui e con Dio, che ritenevo colpevole di non avermi aiutato, al perdono neppure ci pensavo. Un giorno un prete durante la confessione mi ha detto: non puoi perdonare se non ti senti tu per prima perdonata, amata. Nel tempo ho capito che la rivendicazione delle mie giuste ragioni non poteva bastarmi, per uscire dalla gabbia del rancore in cui stavo rinchiusa dovevo riconciliarmi con Dio, per salvare il matrimonio e ritrovare la pace dovevo mettere fine alla guerra con mio marito. Solo così potevo giudicare quanto fossero vere le ragioni dell’amore che ancora provavo per lui e ritrovare il significato del sacramento che avevamo ricevuto. E il cambiamento che vedevo accadere nei colloqui periodici con Gustavo era il segno che qualcosa stava accadendo».
Fino al giorno in cui, al compleanno del marito, Manuela si presenta a sorpresa insieme ai figli alla porta di Casa Betania con una torta e la fede nuziale che Gustavo aveva lasciato a casa. «È stato l’abbraccio più lungo della mia vita - ricorda lui a distanza di sei anni, senza riuscire a trattenere la commozione -. Le nostre strade si erano di nuovo incontrate, potevamo ripartire insieme». Le ragioni del perdono si erano dimostrate più potenti di quelle del rancore. Gustavo da tre anni è tornato a vivere con Manuela e i loro due figli. Una famiglia ritrovata.
Fino al giorno in cui, al compleanno del marito, Manuela si presenta a sorpresa insieme ai figli alla porta di Casa Betania con una torta e la fede nuziale che Gustavo aveva lasciato a casa. «È stato l’abbraccio più lungo della mia vita - ricorda lui a distanza di sei anni, senza riuscire a trattenere la commozione -. Le nostre strade si erano di nuovo incontrate, potevamo ripartire insieme». Le ragioni del perdono si erano dimostrate più potenti di quelle del rancore. Gustavo da tre anni è tornato a vivere con Manuela e i loro due figli. Una famiglia ritrovata.
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