«Ma tu hai la 104 per tua figlia». Se il lavoro fa pesare la disabilità

Le esperienze e le voci delle madri e dei padri di persone fragili, che faticano a trovare sostegno nella ricerca di un equilibrio tra il tempo lavorativo e i bisogni familiari
September 19, 2025
«Ma tu hai la 104 per tua figlia». Se il lavoro fa pesare la disabilità
«Ti alzi la mattina presto, vai a letto la sera tardi e non hai combinato niente», racconta Claudio, nome di fantasia, che è padre di tre figli, tra cui una, la più piccola di quattro anni, ha una disabilità molto grave. Dalle sue parole è subito chiaro che quel “niente” in realtà è “tutto”, perché «la prendi a scuola, la porti a logopedia, poi stai lì ad aspettare, poi la porti a ippoterapia e musicoterapia, ma nel frattempo anche gli altri figli hanno le loro esigenze». La sua frase restituisce il peso della quotidianità di tante famiglie che hanno figli con disabilità e si può sintetizzare nella parola che torna di più nelle testimonianze che Avvenire ha raccolto tra coloro che hanno incrociato le attività della Fondazione Paideia: fatica. Una fatica che non riguarda soltanto i genitori, costretti a destreggiarsi tra lavoro, terapie e burocrazia, ma anche i figli, che passo dopo passo si conquistano ciò che per gli altri spesso è scontato.
Claudio lavora da quasi 20 anni in una multinazionale nel Milanese. Ha sempre avuto ambizioni di carriera, ma la nascita della figlia più piccola ha cambiato le sue priorità e quelle della compagna, che ha dovuto optare per un part-time con ore di smartworking. «Purtroppo non abbiamo nessuno che ci possa dare una mano», spiega. Anche quando in azienda si sono aperte opportunità di una crescita professionale, Claudio non è stato preso in considerazione oppure si è sentito dire frasi come “Ma tanto tu non puoi perché hai la 104, non ci sei mai”: «In realtà non è vero perché io i permessi li prendo solo quando mi servono per mia figlia. In genere, salvo imprevisti, solo tre giorni al mese». Devi batterti anche contro dei pregiudizi: «Ci sono padri che lasciano fare tutto alle madri, ma io voglio esserci per la mia famiglia». Battute dei colleghi e promozioni mancate lo hanno convinto infine che «non posso “fare carriera” e me ne sto facendo una ragione».
Andrea, papà di due figli, di cui il maggiore oggi ventenne con una disabilità complessa, racconta una storia con tante similitudini. Di Pinerolo, lui lavoratore full-time, la moglie part-time al 70% per poter seguire di più il figlio: «E per fortuna siamo riusciti a mantenere il lavoro entrambi, che è importante per il mantenimento familiare, ma anche per il proprio benessere». Nonostante in azienda non abbia mai avuto problemi a prendere i permessi previsti e «mi sono sempre venuti incontro», Andrea ammette che nel momento in cui ha iniziato a seguire il figlio, la sua carriera non si è più evoluta: «Sono in una “landing position”, una posizione di atterraggio permanente. Ovunque mancano gli strumenti e la cultura di pensare come programmare una carriera per chi si prende cura di un familiare con disabilità».
Una condizione condivisa da molti che, pur riconoscendo la correttezza delle aziende per cui lavorano e accedendo alle agevolazioni normative, come Claudio e Andrea, si trovano a fare i conti con una carriera bloccata e la difficoltà di essere percepiti come “affidabili”. Per Lorella invece, che lavora nella comunicazione per una grande azienda di Torino, il punto di svolta per la sua carriera era arrivato, ma è coinciso proprio con il momento peggiore, quello in cui c’è stata una regressione della figlia: una bambina di sette anni con una disabilità che le complica ogni aspetto della vita quotidiana. «Ho investito tantissimo negli studi, ho fatto gavetta per quella crescita professionale a cui aspiravo da sempre. Quando è arrivata la proposta di un incarico di responsabilità su un intero ufficio ho dovuto rifiutare perché nonostante la disponibilità a venirmi incontro da parte dell’azienda era pur sempre un incarico che richiedeva tempo e costanza che io non ero in grado di dare, non avendo a fianco neppure dei nonni». In accordo con il marito lei ha poi ridotto le ore di lavoro, mentre lui ha mantenuto il full-time. «Oggi sono sostanzialmente una mamma e una caregiver, rimane poco di quella persona che aveva dei sogni, delle ambizioni, e questa cosa mi fa soffrire», specifica. Lorella ha continuato a studiare tanto, anche di notte, ma «per cercare di essere più preparata possibile sui problemi di mia figlia, trovare il percorso giusto per lei, un equilibrio». Oggi crede di averlo trovato: «Ma per vedere dei progressi che migliorino la sua qualità della vita bisogna lavorare tanto anche a casa. Le terapie da sole non bastano».
In tutte e tre le storie la rete dei servizi appare fragile. Claudio ha dovuto discutere con i centri riabilitativi per concentrare alcune terapie della figlia in un’unica giornata, altrimenti avrebbe dovuto chiedere un giorno di ferie ogni mese. Andrea racconta le battaglie per ottenere le ore di sostegno scolastico previste per legge, spesso negate o concesse solo dopo lettere di avvocati. Lorella spiega di come i primi anni «si navighi un po’ a vista» tra medici che non parlano fra loro e insegnanti di sostegno che cambiano. I genitori diventano i primi terapisti dei figli per farli progredire. Così la figlia di Lorella, che fino a due anni fa non diceva una parola e portava ancora il pannolino, oggi per esempio «è spannolinata, canta canzoncine a modo suo e pronuncia brevi frasi». La figlia di Claudio, invece, «ha imparato a mangiare senza sondini». Il ragazzo di Andrea oggi può sciare da seduto con il padre grazie al mono-sci: «Quando seppi la diagnosi di mio figlio, come prima cosa pensai “Non canterò mai più in macchina spensierato, non scierò mai con lui”, ma con fatica e grazie all’aiuto di realtà come Fondazione Paideia, abbiamo costruito una vita piacevole, fatta anche di esperienze che senza un ragazzo con disabilità non avremmo mai potuto vivere».
Se il presente è fatto di fatiche, il futuro è pieno di desideri, ma quasi tutti incentrati sui figli. Claudio sogna il giorno della pensione, quando potrà dedicarsi ancora di più alla sua bambina: «Me la coccolerò, starò con lei, tutto il resto non conta». Lorella desidera che sua figlia diventi sempre più autonoma, trovi il suo posto nel mondo pur con le sue difficoltà e di avere la salute in modo da potersi prendere cura di lei, resistendo insieme al marito alla sfida della disabilità: «Se so che è serena, per me non voglio altro». Andrea guarda più lontano e immagina per il figlio una vita dopo di lui, sperando che possa ancora fare quello che lo rende felice anche senza i genitori: andare in piscina, allo stadio, a sciare. È il sogno di un “dopo di noi” che dia dignità e valorizzi la libertà residua di chi ha una disabilità. La fatica di queste famiglie, insomma, è anche la misura della speranza con cui guardano al futuro, oltre che – ça va sans dire – del loro amore.

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