«Io, prete operaio, oggi vedo più sfruttamento di prima»
In dialogo con don Luigi Consonni, 84 anni, che negli anni Sessanta si fece assumere dalla Breda a Sesto San Giovanni. «Dalle fabbriche alle scuole popolari, ecco la nostra eredità»

Quando si sentirono dire che «le mani consacrate non possono sporcarsi» i preti operai capirono subito che per loro sarebbe stata molto dura. Anni di lotte in fabbrica, con effetti collaterali e inevitabili dentro la Chiesa, non hanno mai procurato grandi simpatie a questi sacerdoti “rivoluzionari” che hanno fondato la loro vocazione sul lavoro. Finché il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, li ha tolti dallo scomodo angolo dei “ribelli”, incaricando monsignor Bruno Bignami, responsabile dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della Cei, di riunirli in seminari annuali: a giugno si è tenuta la terza edizione. Un segno tangibile di apertura nei confronti di chi per troppo tempo ha dovuto fare i conti con le diffidenze delle gerarchie dentro la Chiesa. «Purtroppo, però, oggi siamo rimasti in pochi e siamo vecchi: 50 anni fa eravamo più di 300, adesso ci contiamo sulle dita di una mano. Però avevamo e abbiamo ancora tante cose da dire», sorride don Luigi Consonni, 84 anni portati e raccontati con l’acuta ironia di chi ne ha viste tante.
Seduto al tavolo del suo salottino studio nella casetta all’interno della parrocchia di Maria Regina a Pioltello (»Questo è un po’ il mio eremo...»), serve un the e ogni tanto accende il pc per ritrovare documenti e ricordi. Milanese di Porta Romana, è stato tra i primi seguaci di un movimento che ha condiviso le tante fatiche e le poche speranze di chi, negli anni ‘70-’80, si guadagnava il pane alla catena di montaggio. «Ma anche oggi – riflette don Luigi – occorre chiedersi che vita fanno davvero i lavoratori. Da quel che vedo, c’è più sfruttamento di prima. Certamente diverso, ma forse anche più opprimente. Troppe ore in ufficio a rincorrere obiettivi stressanti, senza contare che con mail e pc si continua a lavorare anche a casa, la sera e nei weekend. Parliamo di crisi della famiglia, ma non ci rendiamo conto di come questo modello così competitivo ed esasperato finisca per logorare i rapporti umani». La memoria storica dei preti operai (Po) può aiutare a decifrare anche le dinamiche e le distorsioni dell’era digitale, soprattutto all’alba dell’Intelligenza artificiale. «Il lavoro, che un tempo si identificava sostanzialmente con la fabbrica, oggi è un mosaico diversificato di gruppi umani e di processi produttivi – annotano i preti operai – e il rapporto di sudditanza e di conflitto padrone-lavoratore ha come scenario complementare, spesso sostitutivo e peggiorativo, realtà lavorative che coincidono con relazioni di sfruttamento, di schiavitù moderne, e realtà di marginalità strutturali che confluiscono nella definizione di “scarti” umani».
Sono cambiati i tempi, ma non la sostanza. Ecco perché servirebbe ritrovare quello slancio emerso nel Dopoguerra, in Francia, quando le grandi industrie iniziarono a spuntare attorno a Parigi e Lione, risucchiando masse di disperati. Fu lì che portarono la loro missione quei preti che, pur di non lasciare soli i prigionieri cattolici, avevano avuto il coraggio di entrare clandestinamente nei lager. Dai nazisti ai nuovi padroni, la vocazione restò la medesima: fare i pastori in mezzo al gregge, senza mai chiamarsene fuori. Un’esperienza che di lì a qualche anno sconfinò in Italia. Don Consonni fu uno dei primi a capire che era tempo di scendere dal pulpito. Divenuto prete nel ’68 («Una data che dice tutto...»), approdò nel quartiere degli Olmi a Baggio, lembo estremo – in tutti i sensi – di Milano. L’Alfa di Arese aveva aperto da poco: 15mila dipendenti, molti dei quali arrivati dal Meridione. «Mi prendevo cura dell’oratorio e insegnavo a scuola: capii in fretta che ai figli degli operai non interessavano le prediche – ricorda don Consonni –. Allora decisi di vivere la vita dei loro genitori, andando a lavorare con loro. Fu il mio modo di vivere l’Incarnazione di Gesù: semplicemente esserci, là in mezzo agli uomini. Ma impiegai sei anni per ottenere il consenso del cardinale Giovanni Colombo». Alla fine il benestare arrivò, e don Luigi Consonni entrò alla Lamprom, piccola azienda nella sua Porta Romana. «La leader del Consiglio di fabbrica veniva dall’Emilia rossa: quando scoprì che ero un prete non mi parlò più per giorni. Ma poi divenni anche delegato sindacale. Durò poco, perché la fabbrica chiuse con l’inizio dei lavori della linea 3 della metropolitana, che sconvolsero la fisionomia del quartiere».
Nel 1981 don Luigi si fece assumere dalla Breda Fucine di Sesto San Giovanni, ma anche qui non si accontentò di svolgere le mansioni quotidiane. «Costruivamo parti di trivelle petrolifere, ma un giorno vidi uno strano oggetto cilindrico sul tornio. Chiesi lumi all’ingegnere, che mi rispose di non farmi troppe domande. Ebbene, scoprii che si trattava di un obice: la Breda Fucine lavorava per l’Oto Melara, nota industria bellica (ora confluita in Leonardo, ndr). In breve riuscimmo a elaborare un documento in cui chiedevamo di riconvertire la produzione militare. Il Pci non gradì, perché temevano di perdere posti di lavoro...». La Breda, che faceva parte del gruppo Efim, chiuse i battenti nel ’92, con la dismissione delle partecipazioni statali. Don Luigi fu “riallocato” al Comune di Milano, operaio della segnaletica stradale. Nel 2005 andò in pensione e si “ritirò” a Pioltello, dove per anni ha proseguito le sue battaglie.
«La domenica celebro la Messa e se serve chiedo di pregare per Gaza e i palestinesi – puntualizza –. Qui ho contribuito a fondare la scuola popolare, che all’inizio aiutava a studiare i meridionali del quartiere Satellite. Poi hanno preso tutti la terza media, e anche quell’epoca è finita. Sono arrivati i migranti, e sono partiti i corsi di italiano per stranieri. Da qualche tempo però mi sono ritirato, gli anni si fanno sentire. Ma se qualcuno ha bisogno io sono sempre qui». Baluardi di un’epoca scomparsa («la classe operaia non esiste più»), i preti operai tengono faticosamente accesa viva la fiammella del loro impegno al fianco degli sfruttati di ogni luogo e tempo. Una volta la lotta proletaria “spaventava” il Vaticano, adesso non più. «Ma c’è ancora molto da fare, nei documenti del Sinodo la parola “lavoro” compare appena. Papa Bergoglio aveva affrontato la questione, ci aveva anche incontrato. Ma poi lo hanno seguito in pochi su questo tema».
L’eredità dei preti operai andrebbe in qualche modo raccolta. «Il modello è quello di san Paolo, che non prendeva soldi predicando e si guadagnava da vivere lavorando come tutti. Un modello ancora attuale, perché aiuterebbe a capire meglio le nuove forme di alienazione, che forse sono pure peggio di quelle che denunciavamo nel ‘68».
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