«In cella ci sono solo gli ultimi e comandano i più forti»
L'antropologa Francesca Cerbini, autrice del saggio "Prison lives matter": «Il carcere è un luogo oscuro della nostra democrazia. I penitenziari sudamericani? Non sono così lontani».

«Il carcere è un luogo oscuro della nostra democrazia, dove non sappiamo realmente cosa accade». Francesca Cerbini, docente di antropologia culturale all’Università di Palermo, va dritta al punto. Con l’occhio della ricercatrice, fissa lo sguardo sulle radici della grande questione penitenziaria: «Il sistema è assai poco trasparente e orientato verso la repressione, spesso violenta. In nome della sicurezza è tutto consentito, ma è chiaro che così com’è lo strumento non funziona. Non serve alla rieducazione del reo e non protegge la società». Il vizio di fondo è il sostanziale disinteresse per ciò che accade oltre le sbarre, come se non riguardasse né l’opinione pubblica né tantomeno la politica. Per provare a cambiare la prospettiva la professoressa Cerbini ha scritto il saggio Prison lives matter (le vite in prigione contano, ndr), riprendendo il celebre slogan “Black lives matter”. Così come i neri d’America, anche i detenuti sono una popolazione di serie B. Il suo libro (Elèuthera, 2025), frutto di ricerche etnografiche - l’etnografia è una branca dell’antropologia che studia determinati gruppi sociali - nelle carceri del mondo, del Sudamerica in particolare, mette a nudo i forti limiti di un’istituzione che andrebbe drasticamente ripensata. «In cella ci sono soprattutto immigrati e tossici – spiega Cerbini -. Le carceri scoppiano, ma anche questo è funzionale a una certa narrazione, secondo cui il carcere serve a punire e perciò non è un hotel a 5 stelle. Ma non è questo il punto: a parte la necessità di rispettare i diritti, occorre chiedersi chi c’è dentro. E basta studiare per capire che la maggior parte dei detenuti viene dagli strati più poveri, che non hanno accesso a capitali umani e sociali. Gente che non aveva opportunità. In carcere non ci sono ricchi, o comunque sono pochissimi. Questo vuol dire che i cattivi sono solo i meno abbienti? Un racconto fuorviante, che rischia di criminalizzare la povertà».
Ultimi nella vita, ultimi anche dietro le sbarre. Intervistato da Repubblica, il procuratore di Napoli Antonio Gratteri ha squarciato il velo del non detto: «Questo sistema organizzativo ha portato al progressivo controllo delle carceri da parte dei detenuti di alto spessore: i quali ordinano ai più deboli una serie di "favori". Può essere l'ambasciata all'esterno, il trasporto di un cellulare, la custodia di un'arma. E i più fragili ne sono schiacciati, perché rischiano sempre: infrazioni disciplinari, se vengono scoperti; o gravi ripercussioni sull'incolumità, se si rifiutano». Una situazione che Cerbini ha toccato con mano nelle prigioni sudamericane. Ma che non è così distante da quella italiana: le indagini di varie procure hanno portato alla luce l'esistenza di un commercio sommerso, addirittura regolato da appositi tariffari. «Il traffico di droga e cellulari è talmente diffuso da sembrare ormai sistemico - evidenzia la professoressa, che a settembre presenterà il libro al Festival della letteratura di Mantova -. In gioco ci sono attori diversi, e non tutti sono carcerati. Per portare oggetti in carcere servono complicità, parlare di corruzione mi pare riduttivo». Le patrie galere, insomma, non hanno molto da invidiare a quelle di Bolivia o Venezuela, gestite di fatto dalle grandi organizzazioni criminali. La tradizione mafiosa in materia è quantomeno altrettanto consolidata. «Basti pensare al sistema messo in piedi a suo tempo da Raffaele Cutolo, che governava dal carcere la Nuova camorra organizzata. O a quello che era l’Ucciardone di Palermo negli anni ’80 e ’90, per capire che il Sudamerica non è un posto esotico e strano: non è che solo laggiù accadono certe cose».
Come fermare una spirale che trascina sempre più in basso? «Prima di tutto bisogna rendere le carceri più aperte alla società civile. Dopo il Covid sono diventate ancora più inaccessibili di prima. Entrare per fare ricerche è un’impresa. Per tentare di risolvere alcuni problemi occorre invece poter osservare da vicino». Uno dei più urgenti, il sovraffollamento, andrebbe però affrontato in maniera profonda e radicale. «Bisogna riflettere sulla nostra società. La rivoluzione neoliberista ha smantellato lo Stato sociale e le sue garanzie. Se vogliamo eliminare alcune delle cause che gonfiano le carceri bisogna aumentare le opportunità. Con più giustizia sociale ci sarebbe meno gente in cella».
Altra piaga, le violenze e le torture subite dai detenuti. «Ci sono agenti penitenziari straordinari, di grande umanità. Ma mi pare che il sistema spinga spesso a comportarsi in modo brutale. Per invertire la tendenza è necessario che ciascuno si chieda cosa sta facendo, quale contributo sta portando. Se mancano queste domande di senso si scivola nella banalità del male, così ben descritta da Hannah Arendt. Serve la forza di dire no».
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