«Gorizia e Nova Goriça hanno mescolato culture e superato confini»

L'arcivescovo Redaelli, presidente di Caritas italiana, fa un bilancio di "GO 2025", che sta per concludersi: due città di frontiera hanno saputo essere insieme un'unica capitale della cultura europea. Su giovani e immigrazione, dobbiamo saper offrire prospettive di futuro
December 2, 2025
«Gorizia e Nova Goriça hanno mescolato culture e superato confini»
L'arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente di Caritas italiana
Superare un confine ingiusto con il dialogo e le relazioni per costruire la pace. È la strada che ha portato le due città di Gorizia e Nova Goriça, divise da una frontiera innaturale imposta da ideologie e nazionalismi del secolo scorso, a unirsi per diventare Capitale della cultura europea 2025. E partendo da “GO 2025” che sta per concludersi, il libro Gorizia città di pace al centro dell’Europa, il punto di vista di un vescovo, scritto dall’arcivescovo di Gorizia Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente di Caritas italiana, guarda al passato per spiegare il presente e immaginare il futuro. Milanese, 69 anni, giunto in città 13 anni fa, il pastore spiega il laboratorio Gorizia, che tanto deve anche all’opera di clero e laici cattolici e da cui è partito un cammino di pace con pochi eguali in Europa.
Molti italiani non conoscono la precisa collocazione di Gorizia, tantomeno la sua storia di crocevia di culture che a un certo punto si divide in due. Come si arriva agli eventi unitari di Capitale europea della cultura?
La storia della città è particolare perché ci troviamo su un confine. Poi si scopre che è una realtà recente, dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Le radici del confine affondano nella prima guerra mondiale, con le ideologie che l’hanno sostenuta, soprattutto quella nazionalista che ha reso quasi impossibile la convivenza che qui c’è sempre stata - pur con qualche tensione anche tra culture e lingue diverse -, caratterizzata da una mescolanza anche familiare di italiani, friulani, sloveni. Era una realtà anche ecclesiale molto significativa. Il nazionalismo ha creato grosse tensioni, il fascismo ha imposto il cambio dei cognomi agli sloveni, non è stato più possibile parlare sloveno, anche in chiesa c’erano grosse limitazioni. Poi lo scoppio della seconda guerra mondiale ha peggiorato la questione con lo scontro tra l’ideologia nazifascista e quella comunista e qui ci si è trovati in mezzo. Questo ha creato nel dopoguerra un confine artificiale, imposto, che ha diviso in due la città e portato molte sofferenze. Ma non ci si è fermati, si è cercato con tanta pazienza di ricostruire i rapporti. Già nel 1965 l’incontro dei due sindaci, Martina e Strukelji, ha preparato un lungo cammino. Soprattutto l’ingresso nel 2004 della Slovenia nella Ue, dopo la dissoluzione nel 1991 della Jugoslavia, ha rasserenato il clima e ha spinto al superamento del confine. E poi è arrivata l’assegnazione alle due città del titolo di Capitale europea della cultura 2025. Spettava alla Slovenia e non all’Italia, ma Nova Goriça ha vinto con il progetto di Capitale europea della cultura trasfrontaliera.
E come è andata secondo lei GO 2025?
Bene, certamente ha permesso con le varie iniziative di conoscersi di più, di prendere coscienza anche di questa vocazione di Gorizia che i goriziani danno per scontata. In realtà chi viene da fuori, come è capitato a me ormai 13 anni fa, si meraviglia. C’è una differenza sostanziale con l’altra terra di confine dell’Alto Adige e del Sud Tirol. Lì sostanzialmente c’era una realtà omogenea tedesca con una piccolissima minoranza italiana, e solo dopo la prima guerra mondiale l’arrivo degli italiani ha creato tensioni. Qui invece da sempre c’è la mescolanza di culture, quindi Go2025 ha permesso di prenderne coscienza e spero anche di farne una vocazione per il futuro.
Che messaggio arriva da Go2025 all’Europa che pare aver smarrito certi valori?
Qualche anno fa ho fatto la proposta, poi accolta, di spostare un aggettivo. Non chiamare Gorizia capitale europea della cultura, ma capitale della cultura europea, recuperando quei valori che hanno permesso a Gorizia e Nova Goriça di diventare insieme unica capitale della cultura. Sono i valori della pace, della democrazia, del superamento di confini anche ingiusti all’interno della Ue con le relazioni, l’incontro, con l’apprezzamento dell’altro rispettandone le sofferenze. Come diocesi abbiamo cercato di proporre incontri molto partecipati su questi valori, coinvolgendo anche i giovani. Ci teniamo stretta l’immagine del luglio 2020 con il presidente Mattarella che tiene per mano l’allora presidente sloveno Pahor alla foiba di Basovizza. Quest’anno il premio Sant’Ilario e Taziano, assegnato da diocesi e Comune, è stato dato a loro. E nonostante Mattarella fosse appena venuto all’inaugurazione della Capitale europea, è voluto tornare. È stato un segno molto importante.
Tra le sfide del presente ci sono emigrazione e immigrazione, cosa ne pensa anche da presidente di Caritas italiana?
Qui, come purtroppo in altre parti d’Italia, c’è un paradosso. Non siamo capaci di offrire ai giovani una prospettiva di lavoro e quelli che studiano difficilmente trovano spazio e se ne vanno. In parallelo c’è da anni il passaggio dei migranti dalla rotta balcanica. È preoccupante, in questi giorni abbiamo quasi un’ottantina di persone che non trovano spazio nelle strutture della prefettura. Con la Caritas diocesana abbiamo aperto strutture di emergenza a bassa soglia, ma sono piene. In diocesi c’è Monfalcone, dove ormai il 30% degli abitanti è costituito da stranieri regolari, chiamati a lavorare nei cantieri e nell’indotto per produrre enormi navi da crociera. Purtroppo si è solo tentato in parte di avviare un rapporto di attenzione a queste persone, sono stati un po’ scaricati sul Comune. Anche per motivi politici si è creata attenzione soprattutto ai luoghi di culto. Noi abbiamo offerto spazi per la preghiera nel rispetto delle differenze. Ora con l’arrivo di nuovi lavoratori formati ad esempio dai salesiani dal Ghana si cerca di cambiare rotta.
Che messaggio lancia Gorizia sul tema della pace?
Sono temi sempre difficili. Anche l’ultima assemblea della Cei ha approvato un documento sulla pace dove finalmente si parla anche dell’esercito e dei cappellani. In questa città hanno sede due brigate di militari e carabinieri che contribuiscono al peacekeeping in Libano e Kosovo. Mi sembra giusto insistere su tutte le attività di pace come la democrazia, l’ascolto, la riconciliazione. Ma serve una riflessione nella comunità ecclesiale su senso e ruolo dell’esercito per mantenere la pace, e quindi anche quali strumenti e funzioni le forze armate debbano avere nel 2025 sempre partendo dalla Costituzione.

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