«Così la guerra e le armi alimentano oggi il capitalismo»

Chiara Bonaiuti, ricercatrice di Ires, punta il dito contro il passaggio del controllo delle imprese del settore dagli Stati alle Borse e avverte: l’Ue non è autonoma
October 10, 2025
«Così la guerra e le armi alimentano oggi il capitalismo»
«La guerra oggi è diventata parte integrante del funzionamento del capitalismo europeo, e questo non è più solo un problema militare, etico e geopolitico, ma anche economico e di redistribuzione delle risorse», così Chiara Bonaiuti – ricercatrice di Ires Toscana che coordina l’Osservatorio sul Commercio delle Armi – analizza le contraddizioni di un’Europa che investe nel riarmo a danno dell’autonomia politica e delle altre voci di spesa. Peculiarità che sono anche al centro del libro in uscita per Futura Editrice di cui Bonaiuti è co-curatrice assieme ad Achille Lodovisi e Roberto Romano, “L’industria europea della difesa ai tempi della guerra”, e del Festival dell’Economia Critica che si sta tenendo a Milano tra oggi e domani, al quale la ricercatrice ha partecipato come relatrice.
Le spese sulla difesa della Ue si stanno trasformando da risposta alle crisi a vera politica industriale del capitalismo europeo?
Siamo di fronte a un cambio di paradigma per via dell’ingente programma di riarmo europeo, che prevede fino a 800 miliardi di euro per potenziare le capacità militari dell’Unione, assieme all’attuazione della richiesta Nato ai Paesi membri di alzare le spese militari fino al 5% del Pil entro il 2035 (di cui il 3,5% in spese per la difesa e l’1,5% in spese per la sicurezza e l’industria militare), sospendendo temporaneamente le regole di bilancio. La spesa militare però non rappresenta una soluzione virtuosa: è correlata a un aumento delle disuguaglianze e spinge soprattutto verso un modello di finanziarizzazione che mina il welfare.
Che cosa intende?
Negli ultimi vent’anni, con la privatizzazione e la quotazione in Borsa delle aziende del settore, la finanza è entrata nel cuore dell’industria militare. Se una volta le risorse dello Stato erano dominanti, oggi tra gli azionisti di Leonardo, Rheinmetall o Thalès ci sono fondi come BlackRock, Vanguard e State Street, Capital Group e altri fondi, che stanno acquisendo sempre più azioni. Si tratta di fondi istituzionali americani che sono presenti ormai in molte società quotate in Borsa e sono in grado di influenzare la finanza e la stessa politica. Questi soggetti non investono per la sicurezza dei cittadini europei, ma per il rendimento.
Però, si parla spesso di riarmo come volano economico e strumento di sviluppo.
I dati non lo confermano, anzi. Dal 2013 al 2024 la spesa militare dei Paesi europei è aumentata di circa il 70%, ma il Pil solo del 13% e l’occupazione del 9%. Non c’è stata una crescita proporzionale. In Italia, per esempio, è stato osservato come un miliardo investito in armamenti genera circa tremila posti di lavoro, mentre la stessa cifra investita in sanità o istruzione ne produce tra i novemila e gli undicimila. Quindi non è una spesa che crea occupazione diffusa o redistribuzione di risorse, ma concentra i profitti nei settori già forti e nelle mani di poche aziende e investitori. È un consumo improduttivo, mentre investire per esempio in transizione verde e digitale creerebbe più crescita e occupazione. Inoltre, ha degli effetti destabilizzanti e aumenta l’insicurezza.
L’altro nodo è la dipendenza tecnologica e industriale dagli Stati Uniti?
Esatto. Circa il 60% degli armamenti europei viene dagli Usa. La cosiddetta “autonomia strategica” è in gran parte una narrazione. A questo si aggiunge la dipendenza tecnologica: la nuova difesa – quella dei droni, dei satelliti, dell’intelligenza artificiale – è dominata da Big Tech statunitensi. L’Europa non ha ancora una propria base tecnologica per la “new defense” e rischia di restare dipendente, di spendere troppo e non avere benefici sostanziali neppure per la propria economia.
Nello scenario attuale, con il conflitto in Europa, la narrativa dominante è che più spesa in difesa significhi più sicurezza.
Anche questa è un’equazione ingannevole e più volte smentita da numerosi studi. Il problema è la frammentazione e la mancanza di coordinamento: abbiamo numerosi modelli diversi di ogni cosa, a partire da carri armati e piattaforme aeree. Questo moltiplica costi e inefficienze. Inoltre, oggi i costi di energia, materie prime e produzione sono così alti che spendere di più non vuol dire aumentare in modo significativo gli armamenti. Investire somme di denaro così ingenti senza aver prima risolto tali problemi rischia di tradursi in un assegno in bianco alle industrie militari. Questo mentre gli stipendi degli europei continuano a calare e i cittadini pagano sempre più di tasca propria per la sanità.
Gli aspetti geopolitici però non sono secondari.
Va capito che in chiave politico strategica, le proxy war, cioè quelle in cui le parti in conflitto ricevono armi dall’esterno, si caratterizzano sempre per un’escalation orizzontale e verticale, ossia finiscono per usare via via armi sempre più offensive e per estendersi progressivamente verso Paesi vicini. Ciò è confermato dalla letteratura. Di fatto l’escalation tra Unione Europea e Russia non si è mai fermata e siamo a un passo dalla guerra. L’unico modo per evitarla, dicono le evidenze scientifiche, è attivare canali diplomatici. Cosa che l’Unione Europea non sta facendo.
Secondo lei, nel riarmo c’è anche un problema di consenso democratico?
Sì. I media e i decisori politici normalizzano spesso l’idea che l’unico modo per garantire la sicurezza sia investire in armi. Ma l’opinione pubblica – soprattutto i giovani – resta fredda o ostile al riarmo. Anche nei Paesi in cui si torna a parlare di leva obbligatoria i cittadini restano prevalentemente contrari. C’è una frattura tra rappresentati e rappresentanti. Il rischio è dunque che le democrazie europee finanzino una politica che non nasce da un mandato sociale, ma da una pressione industriale e finanziaria.
Come si può invertire questa tendenza?
Vanno cambiate le dinamiche di potere. Lo storico Edward Thompson diceva che il militarismo è un sistema economico, scientifico, politico, ideologico e mass mediatico che ha selezionato nel tempo quelle persone che lo scelgono, legittimano e mantengono in essere. In questo caso il militarismo fa gli interessi di pochi e si basa sull’obbedienza. Bisogna avere il coraggio di dire no alle logiche della cooptazione e del potere, che sono molto pervasive, e trovare nuove forme di partecipazione democratica, come è stato con le manifestazioni dei giovani in difesa della popolazione di Gaza. Ci sono molte alternative alla guerra. Per trovarle ci vogliono teste pensanti, competenza e immaginazione.

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