C'è una fiaba di Gramsci che parla ai non vedenti (grazie ai detenuti)
di Cinzia Arena
Racconti e lettere scritte ai figli dal politico rinchiuso nel carcere pugliese di Turi sono state tradotti in Braille, nel volume l'albero del riccio, grazie a chi sta dietro le sbarre

«L’albero del riccio» è una delle lettere che Antonio Gramsci scrisse, dal carcere di Turi in provincia di Bari, al figlio Delio. Un racconto di vita quotidiana che si trasforma in una piccola favola che ha per protagonisti Antonio, un suo vecchio amico, cinque ricci, tantissime mele e un personaggio segreto che si scoprirà soltanto alla fine del racconto. I detenuti di quello stesso carcere ne hanno ideato, quasi un secolo dopo, e poi realizzato una versione tattile con inserti in Braille grazie ad un laboratorio avviato nell’aprile del 2024. Si tratta del progetto “conTatto” guidato da Fabio Fornasari, architetto ed esperto di laboratori tattili e multisensoriali, ideato e coordinato dalla Cooperativa Sociale Zorba e dalla casa editrice edizioni la Meridiana, con il sostegno del Garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Puglia. Con il libro tattile anche la lettera di Antonio Gramsci, semplificata e stampata con un font ad alta leggibilità EasyReading.
Un grande classico della letteratura per l’infanzia diventa così accessibile anche ai non vedenti e alle persone con difficoltà cognitive o linguistiche, possono sfogliare e toccare il libro. Nel carcere l’intellettuale italiano passò oltre 5 anni (dal 1928 al 1933) da recluso in seguito alla condanna da parte del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato fascista. Da qui scrisse alla moglie Giulia e ai suoi figli, Delio e Giuliano, molte lettere. Sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi bambini, lasciati in tenerissima età, ed è attraverso la scrittura che trovò il modo di essere presente nelle loro vite. La raccolta “L’albero del riccio” è il tentativo di riappropriarsi di una dimensione intima e familiare che in carcere gli era negata. Benché rinchiuso in una prigione, Gramsci racconta quelle storie immaginando di avere i suoi bambini davanti agli occhi e lo fa con tanto interesse e vivacità, con tanto spirito e buon umore, da far dimenticare i muri della cella nella quale era costretto. Allo stesso modo per i detenuti di oggi raccontare questa storia, riscrivendola e dandole forma in base alle proprie emozioni, ha un forte valore simbolico che li fa sentire un po’ come l’autore: in grado di lanciare un messaggio positivo e di speranza a chi si porta sulle spalle il fardello di un handicap cognitivo o visivo. « Il punto di partenza di questo progetto che ormai va avanti da più di un anno è che non fosse un semplice lavoretto ma un percorso che mette al centro le persone, la loro emotività – spiega Fornasari –. La storia di Gramsci che abbiamo scelto non è una lettera che parla di politica ma di relazioni, parte proprio dallo spazio dal quale scrive, parla della gabbia in cui è rinchiuso un uccellino, ma è soprattutto un racconto di cura». Il laboratorio ha coinvolto dieci detenuti di età diverse ai quali è stato dato il tempo di fare propria la storia, di costruire i materiali tattili e di scrivere i testi in braille. «Alcuni hanno messo in campo la loro esperienza come artigiani, un detenuto – spiega ancora Fornasari – si è appassionato alla scrittura braille e ha iniziato a insegnarla ai compagni. Abbiamo avuto la possibilità di portare una macchina da scrivere specializzata, un’eccezione considerando che in carcere ci sono soltanto computer non connessi alla rete. Per molti di loro questa esperienza può diventare un punto di partenza per il reinserimento nel mondo lavorativo, ce lo stanno già dicendo che una volta “fuori” vorrebbero mettere a frutto le loro competenze ». Da laboratorio il progetto è diventato strutturale: i detenuti, infatti, con le necessarie autorizzazioni, possono “lavorare” anche durante il loro tempo libero. Ogni libro realizzato è unico perché fatto a mano: i primi dieci sono già stati donati ad altrettante associazioni, un’altra quarantina verrà realizzata (su prenotazione) nei prossimi mesi.
L’obiettivo è trasformare questa esperienza in una peculiarità della struttura, avviando la realizzazione di altri libri tattili. Il direttore del carcere Nicoletta Siliberti spiega che il carcere di Turi è una casa di reclusione che ospita detenuti con pena definitiva, alla fine di luglio erano 171. «Il laboratorio che ha portato alla realizzazione del libro tattile “L’albero del riccio” è stato finanziato dal Garante delle persone private della libertà e si è concluso con la presentazione del libro lo scorso 10 luglio. Ci stiamo impegnando per far proseguire questa esperienza trasfor-mandola in una vera e propria occasione lavorativa». Il carcere di Turi è da anni impegnato nel contrasto degli effetti desocializzanti delle detenzione. «Facciamo percorsi di vario genere compatibilmente con scarsezza di risorse e materiali che rende il nostro lavoro particolarmente gravoso. Abbiamo corsi per ottenere le competenze da operatore dei rifiuti e barbiere, altri più tecnici per muratori, e da poco – spiega il direttore – abbiamo inaugurato un’aula dedicata alla formazione dell’enogastronomia, considerando che l’agroalimentare è un settore molto importante per la zona. Offriamo anche percorsi scolastici tradizionali dalla scuola dell’obbligo all’istituto di ragioneria ad alcuni corsi di laurea in collaborazione con l’università di Bari Aldo Moro e laboratori di recupero della relazione genitore-figli che riproponiamo sempre perché sono molto apprezzati». Insomma, si cerca di fare il possibile per favorire la strada dell’emancipazione dei detenuti, nell’ottica di quella che il direttore definisce l’«economia della riparazione ». In questa direzione si inseriscono i corsi di autoimprenditorialità e la certificazione delle competenze acquisite, come appunto nel caso del libro tattile.
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