«Basta strade della morte»: la prevenzione nasce sul territorio
Dopo la tragedia di Beatrice a Roma, viaggio nell'Italia che non si rassegna agli incidenti stradali. In Calabria un'associazione "vigila" sulla statale 106, in Lombardia gli studenti affiancano il 118

Venerdì sera a Roma una 20enne ha perso la vita nell’ennesimo incidente sulla via Cristoforo Colombo, probabilmente dopo un rally urbano clandestino. Si corre troppo, magari anche alterati da alcol o sostanze, sull’arteria che taglia in due la zona sud della capitale. Di fatto, un’autostrada in città, costellata di croci e drammi in serie.
Scontri e investimenti sono quasi cronaca quotidiana. Suscitò particolare commozione, tre anni fa, la morte di Francesco Valdiserri, 18enne figlio di Luca e Paola Di Caro, noti giornalisti del Corriere. Il ragazzo fu travolto da una 24enne in stato d’ebbrezza, poi condannata, mentre camminava sul marciapiede. Una tragedia che ha provocato un dolore immane, ma ha anche spinto i genitori a impegnarsi per favorire una maggior “coscienza stradale” nelle nuove generazioni. Da allora girano le scuole, incontrano i ragazzi, organizzano concorsi a fine educativo. Fatti, e non parole, per provare a migliorare la situazione, creando le condizioni culturali per ridurre i comportamenti irresponsabili. Un’azione spontanea, soprattutto concreta. Capace di andare oltre statistiche e proclami, che spesso lasciano il tempo che trovano. Strade pericolose come la Colombo chiedono soluzioni, non retorica. Capita così che, in attesa che si sveglino le istituzioni, siano proprio i territori più colpiti dalle stragi stradali a muoversi per primi. Piangere restando a guardare non basta più, se si vogliono evitare nuove lacrime. In diverse parti d’Italia spuntano iniziative spontanee accanto a progetti più strutturati.
Un po’ ovunque l’Associazione vittime della strada affianca le famiglie di chi è rimasto coinvolto in un incidente grave, prestando assistenza legale ma anche promuovendo campagne di sensibilizzazione. Poi ci sono le realtà locali, anche loro capaci di innescare percorsi virtuosi. E’ il caso dell’associazione calabrese “Basta vittime sulla statale 106”, meglio nota come “strada della morte”. «Non c’è abitante dei 72 comuni attraversati che non pianga per qualcuno che ha perso la vita o si è ferito gravemente su questa arteria che corre lungo la costa jonica – sospira Fabio Pugliese, fondatore e ora direttore del sodalizio – Parliamo di 415 km di tracciato che è praticamente rimasto uguale a quello realizzato nel Ventennio…». I numeri tracciano un quadro inquietante: «Da buon ingegnere, nel 2014, turbato dalla scomparsa del padre della mia migliore amica sulla 106, mi misi a studiare la situazione. Scoprii che dal ’96 al 2013 c’erano stati 10 mila incidenti, 24 mila feriti e almeno 600 morti – continua Pugliese – ma i dati non tenevano conto di chi moriva in pronto soccorso, e nemmeno di chi perdeva la vita dopo giorni o mesi. Quindi il bilancio era persino più grave. Di fronte a questo scenario decisi di aprire un gruppo Facebook, per raccogliere storie e segnalazioni. In poco tempo gli iscritti superarono quota 20 mila. Tutti a indicare una buca, un lampione spento, un tratto particolarmente pericoloso». Come la famigerata “Curva della morte” a Corigliano Rossano: tre morti solo nell’ultimo anno, tra cui un 17enne. Di sciagura in sciagura, il gruppo social ha raggiunto una massa critica, finché è nata l’associazione. Da allora l’attività di prevenzione e denuncia è stata instancabile. «Siamo una spina nel fianco dell’Anas. Tra i soci abbiamo tecnici, geometri e appunto ingegneri: controlliamo i lavori, chiediamo migliorie. Qualche anno fa c’era un rapporto costruttivo, poi il dialogo si è interrotto…» annota Pugliese. Ma c’è poco spazio per le polemiche. Quel che conta è salvare le vite. Comprese quelle dei migranti che raccolgono olive nella piana di Sibari. «Un giorno mi chiamò l’arcivescovo di Rossano-Cariati, Giuseppe Satriano (ora a Bari, ndr): mi disse che il suo autista aveva quasi investito uno straniero, perché al buio non l’aveva visto. Questi ragazzi, dopo il raccolto, tornano a casa la sera, a piedi o in bici, spesso vestiti di nero, con il rischio di essere travolti. Così i nostri volontari gli vanno incontro per distribuire giubbetti catarifrangenti. Un piccolo gesto che però può fare la differenza».
Azioni concrete, come quelle che mette in campo la campagna On the Road. Nata nel 2007 per intuizione del giornalista bergamasco Alessandro Invernici - le strade orobiche, soprattutto nei weekend, sono storicamente ad alta insicurezza - l’iniziativa prevede una terapia d’urto: portare i giovani direttamente sui luoghi degli incidenti, facendoli assistere agli interventi di polizia, vigili del fuoco e ambulanze. Un’esperienza che lascia il segno (pochi giorni fa adottata anche dal Viminale, che la sperimenterà in dieci aree pilota), e che fa anche germogliare incoraggianti forme di impegno civico. «Da quando abbiamo adottato il progetto – spiega Cristian Zanelli, sindaco di Angolo Terme, nella bresciana Val Camonica – diversi ragazzi hanno deciso di iscriversi ai corsi per operatori del 118 o della Protezione civile. Quando vedono quel che accade sull’asfalto, decidono di fare la loro parte. D’altra parte la piaga degli incidenti funesta anche le nostre zone: la statale 42, quella che porta al Passo del Tonale, è spesso teatro di scontri fatali. Le vittime sono giovani, turisti, gente che va al lavoro. È necessario capire che una seria opera di prevenzione abbassa sensibilmente l’indice della mortalità sull’asfalto». Rallentare, pensare, intervenire. La strada della sicurezza passa da qui.
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