Archiviate le nozze di Bezos, possiamo chiederci quale futuro per Venezia?
Chiuse le polemiche sull'evento mediatico, la città riflette su come vincere la sfida dell’overtourism. Il Patriarcato cambia dal 1° luglio il ticket di San Marco e riapre le chiese del centro storico

Nessuno va a Venezia e esce immune dalla sua bellezza, frutto di storia, identità, fede, tradizioni, e vita di chi la abita. È una “legge” che vale per tutti, vip inclusi. E forse anzitutto loro, avvezzi piuttosto alla fiction: qui è tutto vero, verissimo. Perché è impossibile “manipolare” la natura di una città unica, e di chi la rende viva.

Per questo don Gianmatteo Caputo, responsabile dei Beni culturali ecclesiastici del Patriarcato, non potrà mai essere d’accordo con chi sostiene che Venezia stia diventando Disneyland: «È un riferimento improprio – riflette –, Venezia non ha nulla per essere un parco a tema, e neppure per diventarlo. È una città, con 50mila abitanti, un centinaio di chiese e una sua vitalità della quale gli stessi veneziani si sono “accorti” quando il turismo è sparito causa pandemia. Venezia è e resta una città, in qualunque modo la si voglia sfruttare o piegare alle esigenze del turismo: piccola, delicata, estranea a ogni progetto anche non strutturato per farla diventare qualcos’altro. Volerla trasformare in altro da ciò che è finisce per essere una forzatura che inevitabilmente scontenta tutti, anche gli stessi turisti».

Venezia non è quello che si vuole vendere ai turisti: «Chi pensa, offre e scopre Venezia come un parco a tema sta forzando la realtà – spiega Caputo –. Il problema dell’overtourism col quale siamo costretti a convivere è difficilmente risolvibile perché non si pone l’accento sul fatto che Venezia va fruita per quello che è, ovvero una città, non come ciò che non è, fosse pure un museo aperto. Venezia va presentata così che si capisca che la si deve visitare in un modo diverso dal consumo prevalente. Invece la città viene attraversata come se fosse un grande centro commerciale in cui qualsiasi porta monumentale diventa il negozio in cui entrare. Inevitabile l’imbarazzo dei custodi delle nostre chiese che devono ricordare che non si entra con lo spritz o vestiti da spiaggia». Secondo don Caputo, che è architetto, «dire che cosa sia Venezia va capita prima di arrivarci». C’è un fraintendimento che non dà nell’occhio a chi veneziano non è ma è decisivo: «Si parla degli eventi-vetrina della città, non di cosa Venezia sia. Così tutti pensano di conoscerla, tutti desiderano venirci, ma quando arrivano moltissimi faticano a capire la realtà particolarissima di un centro urbano nato e cresciuto sull’acqua in quanto città, non certo come attrazione turistica».

Quanto alle iniziative per limitare la pressione dei visitatori, come il ticket di accesso per accedere a Venezia, «andrebbero sempre accompagnate da un investimento in comunicazione. Venezia va capita prima di essere visitata, altrimenti non resta che intrupparsi verso San Marco...». Come evitare che questa pressione quotidiana snaturi Venezia, un po’ per volta? «Si tratta di trovare il modo per diluire la presenza e renderla più consapevole di quello che si va a visitare. Questa comunicazione previa, ad esempio all’atto di prenotare la visita, dev’essere la condizione per entrare. Ripeto: il primo problema è che chi arriva in città non è consapevole del posto in cui entra. E questo per Venezia è diverso da qualunque altra città turistica, proprio per l’unicità dei suoi criteri urbanistici. Non abbiamo nemmeno una calle in cui si possa camminare senza imbattersi nel “tappo” umano di comitive turistiche che affollano il centro storico».

In tutto questo la Chiesa veneziana «ha sempre cercato di valorizzare modalità proprie nello stile di accoglienza. Per quasi vent’anni sono stato responsabile della Pastorale del turismo, ho vissuto il progressivo cambiamento dei flussi, e oggi vedo l’affermarsi di una pendolarità quotidiana che rende difficoltoso vivere una città che ha sue caratteristiche tutte diverse nei tempi e nei modi di vita. Si viene spiazzati dall’assenza di aree di riposo: senza parchi, panchine o fontane, la gente si ferma sui gradini delle nostre chiese sui quali vige un divieto comunale di sosta. Un fatto che da occasione di accoglienza diventa motivo di disagio». Lungo gli anni dal Patriarcato sono arrivate «proposte di esperienze per decentrare i flussi rispetto ai percorsi prevalenti puntando a deviarli in zone meno conosciute, valorizzando aspetti culturali attraverso l’arte e la storia della fede, invitando a scoprire un volto più autentico di Venezia nei posti dove i veneziani vivono e operano. L’abbiamo fatto valorizzando lo straordinario patrimonio di santità della Chiesa veneziana, anche attraverso le reliquie dei santi. Così abbiamo scoperto una fortissima attenzione nel turismo dell’Est europeo, mentre a chi ama i grandi maestri nelle chiese abbiamo mostrato che la finalità di culto del luogo dove si trovano le loro opere ne cambia completamente la comprensione: le chiese non sono musei».

Dell’unicità di Venezia i Papi sono i primi testimonial: «Tutti i Pontefici dell’epoca moderna hanno visitato la città, salvo Luciani, che però ne è stato Patriarca – dice don Fabrizio Favaro, vicario episcopale per gli Affari economici –. Il legame con Pietro è un indicatore di una vocazione. Giovanni Paolo II enfatizzò Venezia come città della cultura e nel suo legame con l’Oriente. Benedetto XVI nel 2011 e Francesco l’anno scorso hanno toccato entrambi il tema dell’acqua, che segna l’unicità di Venezia, la sua forza e insieme la sua fragilità. Benedetto parlava della città della vita e della bellezza, chiedendole di scegliere se essere patria di una cultura liquida o che ci rinnova costantemente attraverso la bellezza. Francesco sottolineava l’aspetto della cura evocata dalla fragilità e del saper essere a misura d’uomo attraverso un’adeguata gestione del turismo, con la salvaguardia del patrimonio umano. E parlava di Venezia come luogo di incontro, scambio di culture, “terra che fa fratelli”. Credo che questo definisca bene il compito e la responsabilità della città».

Venezia, aggiunge Favaro, sta vivendo una trasformazione: «Pensiamo al cambiamento per il centro storico seguito all’attivazione del Mose che ha inciso sul modo di vivere, eliminando le acque alte più significative, restituendo la libertà di spostarsi e aiutando il risanamento». La Chiesa di Venezia è impegnata nella trasformazione della città, «che vive una situazione sociale molto diversa da mezzo secolo fa ma con una presenza ecclesiale vitale, tutt’altro che insignificante». Un impegno speciale è per la cura del patrimonio culturale, che «non è solo dei “muri” ma di edifici che sono abitati, vissuti, a cominciare dalle chiese. C’è in questo uno sforzo della comunità cristiana che è continuo, purtroppo in assenza di aiuti pubblici, salvo i bonus fiscali e i cantieri del Pnrr. C’è un lavoro instancabile, per la manutenzione delle nostre chiese, con la volontà che mantengano il loro valore intrinseco, anche quelle non più necessarie al culto che però devono custodire e preservare il loro significato, legato inseparabilmente al sacro. Non si possono mai usare le chiese come fattori commerciali. Alcune verranno trasformate: c’è un bel progetto con l’Università Ca’ Foscari per una biblioteca allestita nella chiesa dello Spirito Santo alle Zattere, in altri casi lavoriamo a rendere alcune chiese luoghi di catechesi, di accoglienza e di incontro, ad esempio legandole al tema della santità, così caratteristico della Chiesa veneziana. Una forma di annuncio che va ben oltre san Marco».

Ma il progetto indubbiamente più importante e ambizioso è quello che sta partendo grazie all’accordo tra diocesi e Procuratoria di San Marco (la fabbriceria che gestisce la cattedrale, ente nominato dal Ministero degli Interni insieme al vescovo) per curare meglio l’accoglienza nel meraviglioso tempio, cuore di Venezia per più di un motivo, che è «“porta” di accoglienza della nostra Chiesa verso i fedeli e i visitatori. Grazie a questa riformulazione, si rendono visitabili gratuitamente tutte le venti chiese del centro storico per le quali sinora era necessario un contributo. Venezia è stata una delle prime città, ormai trent’anni or sono, a introdurre un biglietto d’ingresso per garantire apertura, custodia, piena fruibilità e pulizia. E ora grazie a questo accordo saremo forse i primi a togliere il contributo e riportare le chiese a ingresso libero».

A godere di questa innovazione sono «le venti chiese del circuito dell’Associazione Chorus (tra queste la Madonna dell’Orto, con la presenza del Tintoretto, i Gesuati del Tiepolo, o Santo Stefano), che unisce alcune parrocchie del centro storico. Ma non solo: ne verranno aperte altre venti, come San Bortolomeo a Rialto, San Fantin, Sant’Antonin, e anche Sant’Andrea a piazzale Roma. La riapertura delle chiese consentirà anche la ricollocazione delle opere d’arte che erano state portate via per motivi di sicurezza». Lo sforzo ha preso una forma che esprime tutto l’impegno che si sta mettendo in questa novità: «Stiamo creando una fondazione per le chiese di Venezia – spiega don Favaro – che rende accessibili gratuitamente tutte queste chiese e cura la formazione di chi assicura un presidio preparato e competente al loro interno: chi entra in una chiesa deve capire in quale spazio sta accedendo, e che può visitarlo, come anche pregare, con orari chiari di apertura e chiusura, uguali per tutte le chiese, e della liturgia. Non si consuma: si avvicina un messaggio».

Un capitolo a parte per San Marco: dal 1° luglio inizia un periodo di sperimentazione di 6 mesi col passaggio del biglietto a 10 euro (dai 6 attuali), con gratuità per gruppi scolastici, i residenti dei Comuni della diocesi e forti agevolazioni per le famiglie. «L’aumento è funzionale ad avere maggiori risorse da investire nel restauro e nell’accoglienza dei visitatori proponendo con lo stesso biglietto l’accesso ad altri siti, come la basilica di Torcello, il Museo diocesano e la Sacrestia monumentale della Salute, che oggi hanno ciascuno un proprio biglietto. L’obiettivo è accogliere meglio i visitatori in cattedrale, eliminando le code all’esterno. Con l’acquisto, possibile solo online, verranno tolte le casse contingentando gli ingressi con una loro migliore distribuzione nell’arco di tutta la giornata. E soprattutto sarà possibile riaprire molte chiese. Precisazione molto importante: «La cattedrale è sempre aperta per la preghiera, questo è pacifico».

Legare la visita di una chiesa, peraltro importante come San Marco, non finirà per instillare l’idea che sia un’esposizione museale di opere d’arte? Favaro conosce bene questa obiezione, che circola da anni. Ma per rispondere ricorre a un episodio recentissimo: «Qualche settimana fa ho accompagnato in San Marco il presidente Mattarella, stupito che altare e ambone, autentici capolavori, fossero gli stessi utilizzati abitualmente per la liturgia. Che le chiese non siano percepite come musei dipende dal fatto che siano luoghi vissuti e non solo usati. Una chiesa dove non si celebra e non si prega diventa un museo, anche senza biglietto. Dove invece c’è un contributo d’accesso ma una comunità che celebra allora i luoghi restano vivi, si sente il profumo della liturgia, l’incenso, le candele. Non saranno mai luoghi asettici e artefatti. Questo è lo sforzo della Chiesa veneziana.

Una città che può essere assunta come simbolo dell’iperturismo globale non può soccombere a questa pressione perché «è anche iperculturale: anche la chiesa più piccola – conclude il sacerdote veneziano – ha i suoi tesori d’arte da scoprire. Noi abbiamo la responsabilità di ricordare che questa bellezza straordinaria nasce dalla fede».
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