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Il calcio italiano guida contromano fischiettando

Mauro Berruto mercoledì 10 gennaio 2024
La premessa è che sono un grande tifoso di calcio, così come adoro le storie che il calcio continua a regalare e che hanno una grande capacità di ispirare: l’ultima, in ordine di tempo, quella di Chaka Traorè, ragazzo ivoriano che oggi gioca nel Milan e che, domenica, ha segnato un goal all’Empoli. Arrivato in Italia su un’imbarcazione di emergenza, affidato ai servizi sociali, entrato in contatto con il calcio grazie a una piccola società di Parma, l’US Audace, rappresenta una storia commovente di resilienza e di passione che oggi, a diciannove anni appena compiuti, lo vede diventare protagonista del nostro campionato. Bene, dunque. Anzi, no. Perché al netto di alcune storie liete, il nostro campionato non è per niente in buona salute. Per alcuni sintomi, come il razzismo o l’antisemitismo che, ciclicamente, tornano protagonisti sulle tribune di qualche stadio, la cura è estremamente lunga e legata a un cambio di prospettiva culturale. Per altri, come le ormai inevitabili polemiche legate agli arbitraggi e, oggi più che mai, al Var, la cura sembra introvabile, considerato che in tutti gli altri sport – senza eccezione alcuna – l’avvento della tecnologia ha contribuito a ridurre o azzerare tensioni, mentre nel calcio nostrano le alimenta di domenica in domenica. Sembra incredibile e ci costringe a non stupirci delle centinaia di aggressioni e violenze ad arbitri (uomini, donne, spesso ragazzi e adolescenti) che, in grandi stadi o sconosciuti campetti di periferia, diventano il ricettacolo e l’obiettivo di una rabbia sociale che sta diventando, sinceramente, preoccupante. Poi c’è la terza sintomatologia, quella della profonda crisi economica in cui il calcio italiano naviga: società non solo ultra-indebitate e che hanno vissuto e vivono costantemente al di sopra delle proprie possibilità, ma che spesso hanno anche un segno meno davanti alla cifra del patrimonio netto e che l’unica cosa che riescono a fare per correggere questo abominio imprenditoriale è frignare di fronte alla inevitabile chiusura del rubinetto del “decreto crescita”. Istituito con il nobile scopo di far rientrare cervelli in fuga, il calcio nostrano è riuscito a distorcerlo in strumento per acquistare calciatori stranieri, spesso di scarsissima qualità, esclusivamente perché generatori di un risparmio fiscale fino al 50% superiore rispetto a un atleta equivalente italiano, con il risultato di generare una devastazione dei vivai e conseguenti (e visibilissimi) problemi alla squadra nazionale. Insomma, la classe dirigente di questo calcio sta ormai quasi esaurendo il numero seriale di colpevoli da indicare e continua, imperterrito, a evitare quegli specchi che forse darebbero qualche indicazione in più sulle responsabilità. La sensazione è quella della barzelletta che racconta di colui che, mentre sta guidando in autostrada, sente alla radio: “Attenzione, c’è un pazzo che sta viaggiando contromano” e lui, tenendo il volante stretto e slalomeggiando con la sua auto: “Uno? Ma qui sono tutti pazzi!”. Da alcuni anni il calcio italiano guida fischiettando in contromano, facendo di tutto per trasformare i propri tifosi in clienti. Il risultato è che oggi sta perdendo faccia, tifosi e clienti. Ripeto: scrivo tutto ciò perché sono un grande tifoso (non cliente) di calcio e considero lo sport, e il calcio nello specifico, uno strumento irrinunciabile di costruzione della comunità. © riproduzione riservata