Opinioni

I servizi segreti che servono l'Italia. Silvia e il «grazie» a chi fa e non disfa

Antonio Maria Mira martedì 12 maggio 2020

Ci sono uomini a cui non potremo mai dire pubblicamente “grazie”. Non sapremo mai il loro nome. Né cosa abbiano fatto esattamente. Ma è giusto così. Sono gli uomini dei nostri Servizi segreti che con le loro azioni e le loro relazioni sono riusciti a riportare a casa, sana e salva, Silvia Romano.

Sono ombre, ombre preziose e efficienti. Non James Bond, ma veri ed efficaci. Della loro esistenza, del loro lavoro, delle loro facce, ci siamo accorti forse per la prima volta il 4 marzo 2005 quando un loro “capo” sul campo, Nicola Calipari, grande uomo e grande poliziotto, venne ucciso dal “fuoco amico” americano mentre portava in salvo la giornalista Giuliana Sgrena, sequestrata a Baghdad un mese prima. Allora una storia ebbe, pur tragicamente, un nome. Ma Calipari, responsabile delle operazioni all’estero del Sismi, era già stato protagonista della liberazione delle giovani cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, “le due Simone” sequestrate sempre in Iraq il 28 agosto 2004 e tornate a casa il 28 settembre dello stesso anno. Di quel giorno c’è una famosa foto che inquadra le due Simone, finalmente libere, in primo piano. Sullo sfondo, sfocato, c’è Calipari. Nessun protagonismo. Così deve essere un vero operatore dell’intelligence. Allontaniamo vecchie e tristi immagini di 007 che depistano le indagini su stragi e terrorismo. Fatti veri, purtroppo mai chiariti fino in fondo: storie di bombe, collusioni, strategie della tensione...

Le storie di oggi sono diverse, anche se restano coperte da segreti. Non per coprire chissà quale nefandezza, ma per tutelare chi opera per salvare vite e per difendere la sicurezza del Paese. Eppure a ogni sequestro risolto si torna a parlare, più o meno scandalizzati, e troppo spesso a sbraitare di riscatti pagati, di cedimenti a chi usa la violenza. Lo fanno soprattutto certi ambienti americani e i filo–amerikani (quelli col “k”, con la “c” filo lo siamo anche noi) che considerano gli italiani troppo umanitari e, dunque, arrendevoli. E che preferiscono le azioni da Rambo, quasi mai vincenti. Spiccano nel mucchio dei polemici anche non pochi politici nostrani.

Già, ma quanto vale una vita? Vale un riscatto? Il 9 maggio abbiamo ricordato la drammatica morte di Aldo Moro, giunta dopo 55 giorni di terribili scontri tra chi voleva trattare e chi no. È ormai noto che Paolo VI autorizzò la raccolta di fondi per pagare un riscatto. Invano. Era un cedimento o l’estremo tentativo di salvare una vita? Allora parte dei nostri Servizi segreti erano inquinati, deviati, più obbedienti agli equilibri (o disequilibri) della “guerra fredda”, guerra a bassa intensità, piuttosto che impegnati a salvare una vita. Oggi i nostri Servizi salvano anche le vite di chi, malgrado altre forme di guerre, presidia il fronte della solidarietà. Lo fanno usando infiltrati e informatori, utilizzando segrete alleanze, spendendo soldi? È il loro mestiere e lo fanno bene. Non sapremo mai il loro nome, ma un grazie corale lo meritano. Senza polemiche, senza dietrologie, senza rivendicazioni da duri e puri che non hanno mai salvato nessuno. Troppo comodo. Fatelo voi l’agente dei Servizi, o anche l’investigatore come era Calipari prima di scegliere l’intelligence. Una vita che non cerca consensi o notorietà, ma solo risultati. Così si difende la dignità di un Paese, salvando persone, non riempiendosi la bocca di stucchevoli proclami. “L’Italia non deve trattare!”, abbiamo sentito anche in questo anno e mezzo di rapimento di Silvia Romano. Meno male che anche stavolta il Governo e i nostri agenti non hanno ascoltato. Prima la vita. Sempre.