Opinioni

Editoriale. Senza privilegi, la lezione del processo in Vaticano

Salvatore Mazza venerdì 8 luglio 2016

E alla fine anche la sentenza per il cosiddetto processo “Vatileaks 2 è arrivata. Con due condanne – a monsignor Lucio Vallejo Balda e all’ex membro della Cosea Francesca Immacolata Chaoqui – decisamente inferiori alle richieste dell’accusa, non avendo la Corte ravvisato il reato di associazione, e pena sospesa per cinque anni; un’assoluzione, per il collaboratore della Cosea Nicola Maio; e due proscioglimenti, i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, rispetto ai quali la Corte ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione in quanto i fatti contestati sono avvenuti al di fuori della giurisdizione dello stesso, cioè non in territorio vaticano.

Al di là dei commenti, che si sprecheranno – già abbondavano cinque minuti dopo la sentenza – quel che c’è da sottolineare, alla conclusione di una vicenda amara che in troppi hanno cercato, ciascuno per il proprio interesse, di buttare in farsa, è la sostanza che ne emerge. E, con essa, la lezione che tutti ne dovrebbero trarre. A iniziare dal fatto che, come sottolineato dal portavoce vaticano padre Federico Lombardi nella nota di accompagnamento alla sentenza, questo processo «andava fatto». Non per la “stizza” di aver visto pubblicati documenti che avrebbero dovuto rimanere riservati, e dunque, indirettamente, “processare” una libertà di stampa ritenuta “scomoda”, nello specifico, dal Vaticano, ma per rispetto di una legge precisa del 2013 nata per contrastare certe maligne fughe di notizie. Legge, per inciso, analoga a quelle simili che esistono in tutto il mondo, ma che – mai capito in base a quale principio – per il Vaticano non dovrebbe valere.

La legge dunque c’è, e allora va rispettata. Altrimenti sì che tutto potrebbe diventare commedia. La rapidità dell’istruttoria e del processo stesso, in questa luce, sono stati gli strumenti efficaci per evitare di ridare la stura a quel clima di sospetto globale che, umiliando per colpa di pochissimi la lealtà e la dirittura di tantissimi servitori della Chiesa, avvelenò i lunghi mesi del primo Vatileaks, che vide coinvolto l’aiutante di camera di Benedetto XVI. Ovvero, per dirla ancora con Lombardi, per «combattere con decisione le manifestazioni e le conseguenze scorrette delle tensioni e polemiche interne vaticane, che da un certo tempo si riflettono troppo frequentemente anche all’esterno tramite indiscrezioni o filtrazioni di documenti ai media, creando un circolo e un contesto ambiguo e negativo di interazioni fra discussioni interne e rilanci esterni tramite le comunicazioni sociali, con conseguenze negative anche nell’opinione pubblica, che ha diritto a una informazione obiettiva e serena». Anche questa «una “malattia”, come direbbe papa Francesco, da combattere con determinazione».In ciò, non ha fatto nessuna differenza che questa volta, invece che un aiutante di camera, il principale imputato fosse un alto prelato. Addirittura quello sul quale il Papa aveva riposto il massimo della fiducia ponendolo quale responsabile del secondo degli organismi – la Cosea appunto – istituiti da papa Bergoglio per mettere ordine e trasparenza negli affari economici della Santa Sede. Come Paolo Gabriele, anche monsignor Lucio Vallejo Balda s’è trovato alla sbarra degli imputati, chiamato a rispondere dei propri atti contrari al principio di lealtà, discrezione e riservatezza, e per questi è stato condannato. Vale quanto detto poco fa: oltre che di un precetto di alto valore morale, si tratta di una legge di uno Stato piccolo, ma libero e sovrano. E va rispettata. Da tutti, con un processo ricco di garanzie più che in Italia, ma senza privilegi di “casta”.

Tutto questo, già da sé, dovrebbe bastare e avanzare per far comprendere anche ai più recalcitranti che “Vatileaks2” tutto è stato tranne che quel processo “medievale” (nel senso, qui, di arbitrario) di cui s’è scritto da parte di taluni giornali e di giornalisti (compresi alcuni impresentabili ex) interessati a distorcere la realtà e ad affermare un’inconcepibile improcessabilità “a prescindere” dei giornalisti e dell’amica lobbista. E' stato caso mai l’esatto contrario: un processo esemplare. E proprio l’epilogo riservato ai due giornalisti (autori dei libri che, secondo certuni, si sarebbero voluti colpire) ne è stato la dimostrazione. Nessun attacco alla libertà di stampa, della quale anzi nella sentenza si rileva «la sussistenza, radicata e garantita dal diritto divino... nell’ordinamento giuridico vaticano». Il proscioglimento dei due cronisti-autori ricade nello specifico del «difetto di giurisdizione», in quanto i reati loro contestati (non la pubblicazione, ma la modalità di acquisizione dei documenti) non erano stati commessi in territorio vaticano. Se questa arrivata ieri dal tribunale vaticano non è un’altissima lezione di civiltà giuridica e di garantismo, riesce difficile immaginare che cosa potrebbe essere considerata tale.