Opinioni

La preghiera disarmata che serve. Perché la pace è solo in cima

Francesco Ognibene giovedì 29 giugno 2023

La guerra è devastazione da vandali, la pace costruzione di artigiani. Distruggere e riparare, odiare e riconciliarsi sono due universi remoti, scelte alternative. Non stanno sulla stessa terra, non dentro lo stesso cuore. Potrebbero restare rette parallele che non si incrociano all’infinito, un destino già scritto nella loro inconciliabilità, non fosse per l’ostinazione di chi la pace la desidera come un bene assoluto e universale, l’ambizione vera dell’umanità che sanguina sotto i colpi della guerra. Così questi coltivatori di pace la cercano con una perseveranza tale da renderla visibile a tutti, levandola dalla mensola delle opzioni nobili ma irreali per poggiarla sul tavolo dei contendenti, presenza imprevista tra le astruse mappe del conflitto. Con l’ambizione mite di mostrarla improvvisamente desiderabile, realistica, concreta. Testimoni e profeti. Vogliamo essere anche noi dei loro?

Fanno presente la pace come condizione ambiziosa ma possibile, la migliore di tutte proprio nel mezzo dell’abisso, solo persone che la incarnano in modo disinteressato e credibile, portate a spalla dalla gente che vuole la pace con ogni fibra di sé. A proporre condizioni e gesti di pace mentre la guerra detta legge sino a sembrare la sola opzione ragionevole in campo non sono illusi o sognatori, destinati a farsi dare ragione solo quando le ragioni della guerra saranno esaurite: è chi nella sua vita coltiva abitualmente la speranza dentro una realtà che sembra smentirla ogni giorno, e invece è proprio allora che sa farla rifiorire come se nulla potesse scoraggiarlo. Nemmeno la parete apparentemente priva di appigli che pure va scalata. Perché la pace – quella giusta, non una qualsiasi – è solo in cima, e non consente scorciatoie.

Affrontando la missione in Russia il cardinale Zuppi ha imboccato anche per noi la strada più difficile, verso una vetta che oggi ci appare lontanissima ma sapendola possibile in una lettura della storia che è quella di chi è certo che la pace non è tutta e solo opera di uomini. Possibile, sì. Ma come? Dopo Kiev, la porta di Mosca sinora inaccessibile ai costruttori di pace si è finalmente schiusa mostrando uno spiraglio, che basta giusto per entrare e uscire ma che è già di per sé un segno di luce: fioca,

incerta, ma c’è. A inviare il presidente della Cei è il Papa che della pace è coltivatore tenace, convinto, indomito. Dal 24 febbraio di un anno fa non c’è quasi giorno lungo la via crucis ucraina in cui non l’abbia invocata come il mendicante di tutti i senza-pace del mondo, gli scartati dalla legge del ferro e del fuoco, chiedendo ai potenti di rendersi conto dello scempio, e a noi di non assuefarci mai alla guerra diventata rumore di fondo di una quotidianità che in fondo scorre sempre uguale.

A rendere credibili operatori di pace lui, i suoi emissari (in questi giorni è nuovamente in Ucraina l’instancabile elemosiniere cardinale Krajewski) e anche noi che spettatori non vogliamo diventare può essere solo la certezza che la storia non è un automa cieco mosso da leader litigiosi ma un sogno dentro il cuore di Dio, con l’umanità di ogni tempo che è fatta a sua immagine e non può che avere una invincibile nostalgia della pace custodita per lei dal Padre finché non verranno a chiedergliela sul serio.

E allora cosa resta da fare di degno e vero se non pregare perché oggi stesso gli artigiani della pace facciano breccia nella fortezza dei fabbricanti di guerra, aprano occhi e menti all’impensato, scompiglino le strategie che impediscono persino di vedere un’alternativa al sangue? Pregare, e ancora pregare, e insistere sempre, senza scoraggiarsi, convinti che è solo così – preghiera su preghiera, in proprio o insieme – che si può riaprire il cielo sopra la terra sventrata, le macerie, i cimiteri, le lacrime e la paura, è solo pregando che si può rovesciare la logica ottusa della violenza e riuscire a vedere oltre il fumo della battaglia. Solo pregando torniamo figli, fratelli tutti, umani. Disarmati di tutto, le mani vuote, aperte a chiedere un dono come si invoca la stessa vita.

Davvero non ci resta che disporci così, in questi giorni che un credente sente decisivi, sapendo di non poter fare altro che pregare per avvicinare l’alba. Di per sé sembra niente, ma è tutto quello che serve.