Opinioni

Lo studente egiziano. Nulla di intentato per Zaki ma nulla di avventato

Riccardo Redaelli mercoledì 15 settembre 2021

Garantire piena solidarietà, calibrare pressioni e mosse Si è aperto ieri ed è subito stato rinviato a fine mese il processo a Patrick Zaki, ormai un simbolo della arbitrarietà del sistema giudiziario egiziano e un altro caso, dopo la tragica vicenda di Giulio Regeni, che scuote i rapporti fra Roma e Il Cairo. Non cessano infatti le manifestazioni di solidarietà nel nostro Paese e le iniziative per aiutare il giovane attivista, studente dell’Università di Bologna, che ha già passato un anno e sette mesi di duro carcere preventivo. In particolare, crescono le richieste affinché il nostro governo conceda la cittadinanza italiana a Zaki, con l’idea che l’essere italiano possa rafforzarne la sua posizione nelle fasi processuali.

Favorendone, se non l’assoluzione, almeno la scarcerazione. Una richiesta che nasce da motivazioni nobili e che non possono che essere totalmente condivise: non possiamo accettare che cada il silenzio sulle sorti di un giovane colpevole solo di aver sottolineato le violazioni dei diritti umani e la mancanza di libertà politica nell’Egitto di al-Sisi. Tuttavia, non va taciuto il rischio che la concessione della cittadinanza possa rivelarsi controproducente, finendo paradossalmente per danneggiarlo invece che aiutarlo. Ciò che suscita sempre le reazioni dei governi autocratici – e al Cairo sembrano di questi tempi decisamente molto reattivi – è l’idea che dall’esterno vi siano interferenze tese a ledere la propria autonomia nel giudizio, o che suonino come la richiesta di un’umiliante resa alle 'richieste occidentali'.

Dare a Zaki la cittadinanza dopo l’avvio di un processo a suo carico potrebbe così essere un boomerang più che uno scudo, perché spingerebbe il sistema a condannarlo in modo esemplare, per mostrare la fermezza del regime. Nelle carceri egiziani vi sono, per esempio, sedici cittadini statunitensi la cui scarcerazione Washington – nonostante l’influenza politica decisamente superiore alla nostra – non è ancora riuscita a ottenere. Il presidente al-Sisi cerca da anni di accentuare il suo ruolo da alleato dell’Occidente, un bastione contro l’estremismo islamista e i movimenti jihadisti, affermando inoltre di voler proteggere la minoranza religiosa dei copti ortodossi e cattolici da ogni minaccia; una scelta di campo che mischia le sue convinzioni personali alla convenienza tattica e alle dinamiche geopolitiche regionali.

Ma sui diritti civili e sulle libertà politiche il bilancio è molto deludente, tanto che la nuova amministrazione del presidente Biden sta condizionando una serie di aiuti e di forniture militari proprio a un miglioramento della situazione (oltre che per far leva sul governo e ottenere il ritorno in patria dei sedici americani). Al Cairo, insomma, si stanno accorgendo che alla Casa Bianca non siede più l’ex presidente Trump, che definiva al-Sisi «il suo dittatore preferito». Non a caso, l’Egitto ha avviato la propria «strategia nazionale per i diritti umani»: un programma di ampio respiro per rafforzare il rispetto dei diritti umani, politici, personali e in campo economico-imprenditoriale. Ma subito il governo ha messo le mani avanti: i diritti umani vanno declinati secondo le tradizioni religiose, storiche e culturali del Paese, non presi acriticamente dall’Occidente.

E, soprattutto, c’è bisogno di tempo per implementarli. Insomma, in molti temono che il tutto si risolva in uno semplice spettacolino a uso e consumo della comunità internazionale, senza che vi sia un miglioramento delle reali condizioni per la popolazione. E del resto, la possibilità di fare pressione da parte dei Paesi occidentali, gli unici interessati alla questione dei diritti umani – anche se spesso distrattamente e in modo ondivago – è oggi limitata: la percezione di un declino degli Usa, amplificato dalla disastrosa umiliazione afghana, il ruolo crescente di altri attori internazionali che quei diritti non rispettano neppure a casa loro (come Cina, Russia, Turchia, per fare qualche esempio), le divisioni e le fragilità della politica estera europea non giocano certo a favore. Il futuro per Patrick Zaki rimane così terribilmente incerto. Come complessa rimane la comprensione di quali siano le strategie migliori per aiutarlo da qui. Non serve nulla di malcalcolato e avventato, ma nulla di serio deve restare intentato.