Opinioni

Lavoro. Legge Biagi, il bilancio difficile di una norma mai completata

Michele Tiraboschi sabato 11 febbraio 2023

Rischia di passare sotto silenzio la ricorrenza dei venti anni della “legge 30” del 14 febbraio 2003, ai più nota come legge Biagi. Esattamente come già accaduto lo scorso anno per il pacchetto Treu, che è di cinque anni più vecchio, essendo entrato in vigore nel luglio del 1997, dopo ben due anni di uno scontro politico feroce che pose le premesse per lo sfaldamento della coalizione che sosteneva il primo Governo Prodi. Sottolineare questa circostanza non è un semplice dato di cronaca. Quasi come se, in attesa della ennesima e già annunciata legge in materia, stessimo parlando di due antichi residuati della tormentata storia delle riforme del lavoro nel nostro Paese. Ieri la “flessibilità normata” delle leggi Treu e Biagi e oggi la “semplificazione” delle regole del lavoro, stando almeno alle linee programmatiche presentate poche settimane fa in Parlamento dal Ministro del lavoro in carica.

E vidente e sorprendente è infatti la sproporzione tra l’enorme attenzione prestata, nel dibattito politico e sindacale, a queste due riforme nella fase della loro ideazione, approvazione e successiva attuazione nei luoghi di lavoro rispetto all’assordante silenzio che oggi le circonda. Come se non vi fosse l’esigenza nel nostro Paese, dopo un tempo sufficientemente lungo di sedimentazione, di giungere a stilare un bilancio politico definitivo di queste leggi su cui pure si sono versati fiumi di parole senza però quasi mai entrare a fondo e con serietà nel merito del contendere. Già queste brevi considerazioni sono di per sé sufficienti per trarre un primo insegnamento da questa lontana stagione di riforme che sono state segnate dal ritorno della violenza del terrorismo, con l’assassinio di Marco Biagi, e che hanno diviso non solo il sindacato e gli stessi studiosi della materia, ma l’intero Paese tra favorevoli e contrari.

Il tutto senza però un solo dato istituzionale di monitoraggio statistico e di valutazione condivisa del loro impatto reale sulla nostra economia e sulla nostra società. Sappiamo insomma con certezza da dove si partiva, con una disoccupazione giovanile superiore al 30 per cento e con un tasso di occupazione tra i più bassi del mondo occidentale, con solo una persona su due in età di lavoro assunta con un contratto di lavoro regolare. Non sappiamo invece, secondo plausibili logiche di causa ed effetto, se queste leggi hanno o meno contribuito a migliorare le condizioni di lavoro dei tanti esclusi, giovani e donne in primis. I n realtà Marco Biagi era consapevole della importanza della fase di valutazione politica (che è altra cosa dalla propaganda partitica) previo un adeguato periodo di osservazione su basi scientifiche del funzionamento della legge. Non a caso la riforma che porta il suo nome si caratterizzava per larghi tratti di sperimentalità e di pragmatismo con particolare riferimento al contrasto del lavoro sommerso, alla inclusione nel mercato del lavoro dei gruppi svantaggiati, ai percorsi di alternanza formativa in apprendistato a sostegno di una maggiore e migliore integrazione tra la scuola e il lavoro, all’avvio di moderne politiche attive del lavoro e di una borsa nazionale del lavoro che ancora oggi, dopo venti anni di tentativi e ingenti risorse pubbliche investite, manca al nostro Paese.

Da questo punto di vista il più grande limite della riforma è stata l’incapacità di attuare l’articolo 17 del principale decreto legislativo di attuazione (il 276 del 2003), che ipotizzava l’avvio in ambito istituzionale di una accurata e capillare raccolta di dati e informazioni funzionali alla costruzione di una base statistica omogenea e condivisa per le azioni di monitoraggio e di successiva valutazione. Un tentativo in seguito riproposto con la riforma Fornero del 2012, ma anch’esso senza produrre alcun risultato di fatto. Di modo che oggi è impossibile trarre un bilancio attendibile e sistematico di questa come di altre riforme del mercato del lavoro. Così che, su queste leggi, ciascuno è oggi “libero” di sostenere tutto e il contrario di tutto. E questo non aiuta di certo il decisore politico e le stesse parti sociali a fare significativi passi in avanti nel tentativo di cercare risposte durature, piuttosto che comode scorciatoie, alle due questioni ancora oggi centrali per lavoratori e imprese come lo erano venti anni fa: la questione dei bassi salari e del lavoro povero, da un lato; la questione della stagnazione della produttività del lavoro, dall’altro lato.

La simpatia da sempre manifesta, da parte di chi scrive, verso la “legge 30” non può comunque esimere da un bilancio onesto di questa legge. Faremmo un torto allo stesso Marco Biagi se pensassimo all’appuntamento dei venti anni in termini celebrativi. È vero anzi che, pur senza poterne valutare le ragioni più profonde, in questi ultimi anni le condizioni di “salute” del nostro mercato del lavoro sono rimaste critiche. È certamente aumentata la quantità della occupazione. Ma sono al tempo stesso aumentate anche le sofferenze delle persone che lavorano e con esse le diseguaglianze con marcate caratterizzazioni geografiche, di genere, di razza e di età. Il rapporto Istat dello scorso anno ci mette di fronte a una nuova questione sociale. Il lavoro standard interessa ora solo il 59 per cento del totale della popolazione lavorativa.

Nel 2000 si attestava attorno al 65 per cento. Ad aumentare in modo significativo è il lavoro dipendente di durata temporanea e il numero di lavoratori con retribuzione (annuale o oraria) insufficiente a causa della bassa intensità o continuità della occupazione e cioè la durata effettiva dei contratti di lavoro. Difficile dire se questo sia imputabile alle leggi che hanno cercato di contrastare il sommerso e i modesti tassi di inclusione o piuttosto alla innovazione tecnologica che ha determinato una imponente contrazione del lavoro nel settore manifatturiero e industriale e la creazione di nuovo lavoro in settori poveri perché a basso valore aggiunto e con opportunità occupazionali intermittenti e discontinue. Vero è, per contro, che non sono mai decollate moderne politiche attive per i nuovi mercati del lavoro, mentre restano fuori dalla idea di lavoro (e dalle relative) tutele ampie porzioni di lavoro non produttivo come nel caso del lavoro domestico e di cura.

Lo stesso Marco Biagi, a ben vedere, pensava alla sua legge come a un “ponte” verso un più ambizioso progetto di “Statuto di tutti i lavori” tale da superare la rigida contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato e ripensare radicalmente il nostro modello sociale spostando la trama delle tutele contrattuali e previdenziali dal contratto sulla persona. Un impegno possibile a condizione di rimettere al centro delle politiche sindacali e del lavoro logiche partecipative con il coinvolgimento attivo ed effettivo delle parti sociali. Come avvenne con il protocollo Ciampi del 1993 e anche con il patto del lavoro del 1996, dove si era tracciata una strada delle riforme del mercato del lavoro, avviata appunto con le leggi Treu e Biagi, ma ancora oggi rimasta a metà del guado nel passaggio dalle tutele del “posto” di lavoro alle tutele di nuova generazione per i moderni mercati transizionali del lavoro.

E questo è il secondo grande insegnamento che ci lascia la legge Biagi: il superamento di logiche conflittuali e la consapevolezza della necessità di procedere sui complessi temi del lavoro nel modo il più possibile condiviso. È in effetti giunto il tempo, grazie anche alle risorse presenti nel Pnrr, di un convinto rilancio della stagione dei patti sociali che, nel nostro Paese più che altrove, si sono spesso dimostrati un fattore decisivo per superare situazioni di emergenza economica come quella che oramai da più di un decennio stiamo vivendo e che si intrecciano ora con drastici cambiamenti climatici e demografici che mettono fortemente a rischio il benessere raggiunto dalla nostra società nel secolo scorso. © RIPRODUZIONE RISERVATA C’è una sproporzione enorme tra l’intensità del dibattito politico e sindacale di allora e l’assordante silenzio di oggi Il passaggio dalle tutele del “posto” a quelle di nuova generazione, avviato già dalla legge Treu, oggi è ancora a metà del guado