Opinioni

Tanti sconfitti, non lo sia il Paese. La vertigine e il dovere

Marco Tarquinio martedì 26 febbraio 2013
Il voto dello scontento è arrivato, puntuale, e ha segnato la fine del vecchio gioco bipolare senza però inaugurarne uno compiutamente e sensatamente nuovo. Il Parlamento che si va disegnando in queste ore ne è la prova: è un Parlamento claudicante e come sospeso tra passato e futuro, cioè sull’orlo di una vertigine e di un’impotenza. Eppure è adesso che bisogna riuscire a dare un governo efficace e rispettabile al Paese, anche solo per un tempo dato e, inevitabilmente, con obiettivi ben individuati, condivisi in modo largo e lucidamente "difensivi" – ci si perdoni l’immagine un po’ retorica, ma frutto di accorato realismo – del superiore interesse del Paese. È adesso che bisogna riuscire a eleggere un capo dello Stato che sia punto di riferimento saldo e che accompagni con costituzionale saggezza questa fase che s’annuncia tumultuosa e che deve necessariamente convertirsi in una stagione positiva della vita nazionale. E, soprattutto, è adesso che bisogna dimostrare di saper fare ciò che, nell’anno abbondante di "governo tecnico", nelle vecchie e ostinate Camere non si è voluto fare sul piano della riforma elettorale e dello snellimento e del riequilibrio della "macchina" della politica. Una macchina pesante, costosa e deludente che si rivolta ormai con inesorabile regolarità contro chi si illude di esserne il "padrone" annunciato...L’inverno del nostro scontento ha avuto, dunque, la sua tempesta (quasi) perfetta. E la morsa di gelo che ha accompagnato il voto degli italiani (molti meno che nel 2008, ma alla fine più del previsto) s’è trasmessa integralmente al palazzo. È andata così per diverse ragioni, anche tecniche: le regole elettorali che rendono comunque governabile la Camera e rendono probabilmente ingovernabile (in concreto è accaduto due volte su tre) il Senato. Ma le ragioni sono soprattutto di merito: nessuno, in realtà, dei vecchi e nuovi protagonisti della scena politica è riuscito a risultare pienamente credibile. E così in quest’Italia in cui a lungo abbiamo temuto e, infine, abbiamo evitato un’involuzione economico-finanziaria "alla greca", ci ritroviamo a fare i conti con un voto generale dal sapore "greco". Simile cioè ai risultati che ad Atene, in rapida e forzosa sequenza, nella primavera di un anno fa, hanno portato all’attuale obbligato (e commissariato) equilibrio di governo. E qui da noi, ora, sarebbe utile che nessuno si facesse tentare da giochi di prestigio o nuovi azzardi elettorali.Pur nella fluida incertezza di dati non ancora perfettamente consolidati, appare infatti chiaro che tutti i "vincitori" nel voto del 24-25 febbraio 2013 sono anche sconfitti. Tutti, tranne uno: il Movimento 5 Stelle del tonante "caudillo dell’onestà" (e profeta di un piazzapulitismo suadente e inquietante al tempo stesso) Beppe Grillo. Conquista addirittura un quarto dell’elettorato, diventando la seconda forza politica nazionale (in diverse regioni la prima) e ridimensionando davvero tutti. A cominciare dall’altra alternativa ai partiti egemoni della Seconda Repubblica, l’area civica del "risanatore" Mario Monti che esiste e resiste coi suoi 3 milioni di consensi, ma non è stata riconosciuta – come in una fase della sua messa in campo era invece parso possibile – come "il" riferimento per i moderati e i riformisti che non si riconoscono più nei vecchi schieramenti. Perde Pier Luigi Bersani, che alla guida di una coalizione imperniata sull’asse con Nichi Vendola (che ricordava, per diversi aspetti, quella occhettiana del 1994) manca nettamente l’occasione storica della conquista diretta di Palazzo Chigi, nonostante oggi rappresenti la minoranza politica (il 29-31%) un po’ più forte del Paese e controlli la maggioranza della Camera dei deputati. Perde Silvio Berlusconi, che a quanto pare si consolerà con una risicatissima maggioranza relativa al Senato, che può vantare la risalita del Pdl dal 13% dei sondaggi (ah, anche ieri quanto poco affidabili...) dell’autunno 2012 al 21-22% degli scrutini del 2013 e che spenderà queste carte sui tavoli del dopo-voto, ma incassa una batosta da 15-16 punti in meno rispetto a 5 anni fa.Qualcuno, poi, è più sconfitto degli altri. Antonio Ingroia, per esempio, a conferma del fatto che certa sinistra fatica a trovare spazio anche quando si riveste della toga da "partito dei giudici" (facendo un torto ai giudici). Gianfranco Fini, praticamente evaporato. E Pier Ferdinando Casini che, una volta fatta la scelta di stare nel nuovo centro montiano, poteva e doveva evitare allo Scudocrociato una "battaglia" per l’1 virgola qualcosa dei voti. La Lega Nord, guidata oggi da Bobo Maroni, esce infine dimezzata dalla prova elettorale affrontata di nuovo a fianco del Pdl, come ai tempi di Bossi. E nelle prossime ore capiremo se questa avventura le sarà davvero valsa la conquista del governo regionale della Lombardia: per i <+corsivo>lumbard<+tondo> sarebbe il massimo ai tempi del minimo. E, in fondo, questo si potrebbe dire per (quasi) tutti i vittoriosi duramente sconfitti di ieri. Soprattutto se se ne renderanno conto.