Opinioni

Propaganda. Il linguaggio delle armi e le armi del linguaggio

Fabrizio Battistelli domenica 8 maggio 2022

Un tratto distintivo delle guerre, e fortemente anche di questa Sono tempi nei quali domina il linguaggio delle armi. Armi da inviare, da usare sul campo, da fabbricare in quantità sempre più elevate, da perfezionare in prestazioni sempre più avanzate, in alcuni casi anche armi fabbricate dal nemico, da riciclare e spedire sul campo come nuove. Armi per le quali autorizzare fondi crescenti e conquistare quote di spesa pubblica. Da sperimentare per la prima volta dal vivo, non più nei laboratori e nei poligoni, ma contro armi, infrastrutture, case. In guerra, tuttavia, il dominio finanziario, tecnologico e operativo delle armi non esclude un ruolo quasi altrettanto importante per i linguaggi. In termini di comunicazione il primo e primordiale espediente della guerra è offendere il nemico. Per Putin, Zelensky e il suo governo sono «una banda di tossicodipendenti e di neonazisti» e banderovtsi è il termine spregiativo per indicare gli ultranazionalisti. Per gli ucraini, invece, i russi sono i rashist, fusione di Russian/racist/fascist.

Più evoluto l’espediente inverso, quello di rendere accettabili le realtà inaccettabili. Nel suo romanzo distopico '1984' Orwell ha scolpito i prodigi della neolingua, il 'rivoluzionario' codice comunicativo dello Stato, mediante il quale il consolidato e normale significato delle parole si capovolge nel suo contrario. Tanto per abituarsi, la parola 'caldo' viene sostituita dalla parola 'nonfreddo', e di conseguenza il Ministero della Guerra diventa il 'Ministero della Pace' e i campi di concentramento i 'Campi della Gioia'. Dopo la Seconda guerra mondiale anche i governi democratici hanno iniziato a fare uso di perifrasi accattivanti, così che in America e in Europa i Ministeri della Guerra sono diventati i Ministeri della Difesa.

Tuttavia, mentre nelle democrazie rappresentative le denominazioni ufficiali sono soggette allo scrutinio del discorso pubblico, nelle autocrature quest’ultimo è assoggettato alle pressioni della censura. E le voci dissonanti non vengono semplicemente ignorate dal potere (la tattica più praticata in Occidente) bensì vengono brutalmente silenziate. Socialista libertario e testimone durante la guerra civile spagnola delle persecuzioni staliniane contro gli oppositori di sinistra, Orwell aveva in mente la 'lingua di legno' dei burocrati sovietici, infarcita di metafore, circonlocuzioni ed eufemismi, aventi come obiettivo la manipolazione dello stato delle cose. Del resto, neanche nella patria della libertà di parola, gli Stati Uniti d’America, sono mancati i termini riduttivi, paradossali o sconsideratamente scherzosi. Le due bombe atomiche lanciate nel 1945 sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki erano note tra i militari americani come rispettivamente Little boy ('ragazzino') e Fat man ('Ciccione').

E negli anni Ottanta gli Usa hanno schierato un missile intercontinentale a testata nucleare plurima chiamato Peacekeeper ('Pacificatore'). Fermo restando che in guerra il governo che parla, quando parla, lo fa per definizione a favore della propria parte, spesso e volentieri l’effetto delle parole è inaspettato. O, per meglio dire, determina effetti diametralmente opposti in pubblici differenti. Quando il ministro degli Esteri russo Lavrov pronuncia l’inqualificabile battuta sull’origine ebraica di Hitler, probabilmente mette sul piatto della bilancia il pugno allo stomaco subìto da una opinione pubblica (quella internazionale) a fronte del presunto gradimento di un’altra (quella interna).

E tuttavia, nella gara ad allontanarsi dall’umano che si scatena nel conflitto bellico, a volte quest’ultimo impone la sua tragica verità. Chiamando una «operazione militare speciale» l’invasione dell’Ucraina, in termini di comunicazione Putin ha dato vita a un effetto paradosso che lo ha screditato anche agli occhi degli osservatori più indulgenti. Il problema è che, negli scenari illusori del Cremlino, l’occupazione dell’Ucraina doveva essere una «liberazione» e questa non poteva essere introdotta da una dichiarazione di guerra. Allontanata dalla porta, la nemesi della guerra si ripresenta dalla finestra e reclama i suoi diritti. Non vuole soltanto parole, vuole vite umane, quelle dei giovani coscritti nella mobilitazione generale. E chi si rivolge alla guerra deve, prima o poi, chiamarla per nome.

Sociologo, presidente di Archivio Disarmo