Opinioni

L'esperienza dei lockdown. Il bisogno di un tempo «libero» appartiene alla natura umana

Massimiliano Padula martedì 18 gennaio 2022

Nell’Etica Nicomachea, Aristotele afferma come sia necessario essere «operosi per avere tempo libero da dedicare alla contemplazione ». Il filosofo greco non avrebbe probabilmente sospettato che dopo più di due millenni il lavoro sarebbe stato raccontato come un tutt’uno con la vita. È accaduto in una recente campagna pubblicitaria del Parmigiano Reggiano, con protagonista il formaggiaio Renatino, presentato come un dipendente modello che lavora 365 giorni all’anno producendo una delle eccellenze del panorama gastronomico italiano: nello spot quando una delle giovani in visita in azienda chiedeva incredula a Renatino se era felice di lavorare senza interruzioni, egli, forse intimidito o caratterialmente introverso, si limitava ad annuire con la testa, attestando la sua felicità. Lo spot ha generato critiche feroci e indignazioni, ma anche reazioni ironiche e parodie divertenti. Il polverone ha mobilitato perfino il committente della campagna, il Consorzio del Parmigiano che, dispiaciuto della ricezione alterata di un messaggio che voleva comunicare dedizione e non sfruttamento, lo ha ritirato dai palinsesti televisivi annunciandone la modifica.

Al di là dei giudizi di maniera che rischierebbero di alimentare polemiche e produrre ulteriori (e inutili) fiumi di parole, questa vicenda offe lo spunto per una riflessione intorno ai due cosiddetti tempi sociali più importanti: il tempo del lavoro e il tempo libero. L’industrializzazione ha delineato la cornice della cosiddetta modernità, ovvero una società basata sulla divisione del lavoro e sul primato dell’individuo che può emanciparsi dalle catene della sudditanza medievale e diventare un cittadino che gode di diritti. Sono i tempi della liberté repubblicana francese e del self made man americano che consacrano i valori materialisti e scientifici. Sono anche i tempi dell’emersione della classe operaia che vende la propria “forza lavoro” in cambio di un salario garantito a fine mese per sposarsi, fare figli, comprare una casa o un’automobile, assicurarsi una vecchiaia tranquilla grazie alla pensione.

Ma non è tutto oro quel che luccica. Lo spiega Charlie Chaplin portando sullo schermo nel 1936 “Tempi moderni”, manifesto marxista che demolisce il mito della produzione capitalista e smonta gli ingranaggi della catena di montaggio che, da icona del progresso, finisce per trasformarsi in una macchina infernale che ingabbia e stritola il malcapitato lavoratore. Il film inizia con una didascalia sarcastica con la quale Chaplin introduce gli spettatori alla visione di “una storia i cui personaggi sono l’industria, l’iniziativa individuale, l’umanità che marcia alla conquista della felicità”. La “ricerca della felicità” può, quindi, essere considerata uno dei fil rouge che contraddistinguono la storia dell’umanità dell’ultimo secolo. Non è un caso che sia anche il titolo della pellicola di Gabriele Muccino del 2006 in cui uno straordinario Will Smith interpreta il commerciante di un apparecchio sanitario che fatica a vendere compromettendo la sopravvivenza economica della sua famiglia. Il protagonista poi si riscatterà entrando in un’ottica professionale iper competitiva nella quale la conquista del posto di lavoro significherà perdere la dignità di uomo, marito e padre.

Le due opere cinematografiche citate sono due modelli di tempo del lavoro: il primo, circoscritto temporalmente attraverso i limiti orari imposti dal cartellino, ma alienante, grigio, standardizzato, gerarchico. Il secondo, più libero, aperto all’iniziativa personale, ma precario e subordinato alla logica estrema della performance personale. La dicotomia “dipendente/libero professionista” caratterizza tuttora le esistenze di donne e uomini che lavorano e che, però, hanno anche a disposizione un tempo “altro”, per completare e integrare la loro quotidianità. Quest’altra porzione temporale è il “tempo libero”. Inizialmente concepito come tempo “liberato” dagli obblighi lavorativi, il tempo libero assume piano piano una connotazione socio-culturale più articolata. Anch’esso è da considerarsi una delle conseguenze della modernità. Dopo le otto ore lavorative dell’impiego, infatti ne rimanevano altre 16 da consumare. La metà erano dedicate al riposo, a quel ristoro fisico che i latini chiamavano recreatio. Le altre otto erano libere di essere scelte e inizialmente (sempre ai tempi della industrializzazione a cavallo tra il XIX e XX secolo) furono percepite come un semplice stacco mentale dalle fatiche lavorative, come una sorta di riproposizione in chiave moderna dell’otium romano (svago) contrapposto al negotium (occupazione e – in senso figurato – preoccupazione, difficoltà, sforzo). I mutamenti avvenuti lungo il Novecento investono profondamente il tempo libero tanto da attribuirgli una funzione sociale ben precisa. Esso diviene lo strumento preposto alla realizzazione del consumo di massa. Lo dimostra il proliferarsi – soprattutto nei contesti metropolitani – di spazi destinati a favorire le relazioni (i caffè, i parchi), la cultura (i teatri e le sale cinematografiche), l’attività motoria (i centri sportivi), la conoscenza di posti lontani (il turismo), la spiritualità (i luoghi di culto), la cura del corpo e della propria immagine (i saloni estetici e le boutique). Il tempo libero, quindi, si istituzionalizza a tal punto da oltrepassare il semplice effetto liberante dalla scure del lavoro, per definire i contorni di quello che Zygmunt Bauman chiama homo consumens.

Nasce così un interesse intellettuale per questa categoria a tal punto che la denominazione italiana (tempo libero, appunto) risulta insufficiente per indicarne le specificità. Si preferisce, quindi, adottare la parola francese (loisir) o quella inglese (leisure), per connotare un concetto che richiama etimologicamente il termine latino licere, ossia la dimensione della liceità, intesa come assenza di costrizione. Si tratta di una speciale condizione dell’uomo contemporaneo finalizzata alla realizzazione del sé, cioè un tempo dotato di senso e vissuto in una prospettiva di scelta individuale. In esso posso svagarmi (giocando a tennis), non fare nulla (guardando la tv seduto in poltrona), dedicarmi ad attività pseudo lavorative (come il giardinaggio o il volontariato). Al di là della sua forma, ciò che conta è quel “per sé”. Lo spiega bene storico francese Alain Corbin quando lo descrive come un perimetro personale «governato dal piacere e in cui dimentichiamo le imposizioni temporali stabilite dalla società e creiamo un tempo per noi».

È evidente che tempo del lavoro e tempo libero siano due paradigmi umani e collettivi fondamentali che, nel corso della storia recente, hanno subito rimodulazioni e rinnovamenti. Questo è avvenuto soprattutto a causa della complessità e dell’incertezza che contraddistinguono il presente. Il lavoro è sempre più spinto su logiche prestazionali e competitive, mentre il leisure è sempre più legato a esperienze di consumo e a comportamenti omogenei (ad esempio il boom del fitness o dei viaggi mordi e fuggi). Ciò che non è cambiato è il desiderio dell’uomo di vivere la propria vita differenziando le esperienze. Lo ha dimostrato la pandemia che, se in principio ha dissolto le diversità, creando un tempo unico sospeso in cui era possibile fare tutto (si pensi allo smart working), poco dopo ha visto le persone lottare per tornare ai propri spazi e ai propri tempi. Perché, come già si scriveva nell’Antico Testamento, «tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci» (Qoèlet 1, 5).

Sociologo dei processi culturali e comunicativi, Pontificia Università Lateranense