Agorà

Venezia. Virgilio Guidi e la pittura senza ombre

Alessandro Beltrami venerdì 24 settembre 2021

Virgilio Guidi, “Punta della Dogana”, 1948-1950

Un po’ scherzando e un po’ no, c’è chi dice che non ci sia casa di veneziani senza un quadro di Virgilio Guidi. Un’iperbole, certo, ma che racconta bene la storia di un pittore e del suo ancoraggio a un territorio, con le sue virtù e i suoi limiti. Che Guidi sia diventato il pittore di Venezia per eccellenza del Novecento non era scontato, lui nato a Roma nel 1891 e arrivato stabilmente in laguna solo nel 1927, chiamato a insegnare in Accademia. La sua natura di “foresto” solleverà malumori e aperte ostilità che lo costringeranno nel 1935 ad andarsene a Bologna. Vi ritornerà nel 1944 per restarvi fino alla morte, avvenuta nel 1984. Una identificazione forte, forse persino soverchiante, che rischia di amplificare la fama all’interno del contesto e proiettarvi attorno un distorto alone percettivo. Ma è senza dubbio vero che l’incontro con Venezia e la sua luce abbiano segnato un punto di non ritorno per Virgilio Guidi, come emerge con grande chiarezza dalla ampia retrospettiva – sono tre le sedi – che la Fondazione Bevilacqua La Masa gli dedica a cura di Stefano Cecchetto, Giovanni Granzotto e Dino Marangon (fino al 7 gennaio; catalogo Mandredi Edizioni). Un percorso completo (a mancare in mostra è sostanzialmente solo Il Tram, il capolavoro assoluto di Guidi, assai ammirato alla XIV Biennale e oggi conservato alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma) dagli esordi agli ultimi lavori, che consente di ricostruire trasformazioni, scarti, continuità. Nella sede della fondazione in Piazza San Marco sono esposte una sessantina di opere che coprono l’intero arco cronologico dell’artista, dagli anni Dieci e Venti fino ai tardi anni Settanta, e raggruppate per tagli tematici. In Palazzetto Tito, in Dorsoduro, la mostra si focalizza sulle opere degli ultimi 25 anni insieme a una selezione della collezione Sonino, composta soprattutto da marine del dopoguerra. A Ca’ d’Oro infine sono esposte nature morte degli anni Dieci e opere come I carabinieri a cavallo del 1920 e Uomo che legge del 1927. Qui e in San Marco, le opere di Guidi sono messe in raffronto con lavori del rinascimento e del vedutismo settecentesco. Lo sguardo complessivo consente di esprimere un giudizio piuttosto netto, che tutto sommato non si allontana da quello con cui nel 1954 Guidi rimase travolto in Biennale, dove pareva essere predestinato al primo premio della Pittura per rimanervi invece escluso in favore del più giovane Santomaso. Allora Guidi espose una cinquantina di tele, polarizzate tra quelle degli anni Venti e quelle spazialiste del dopoguerra, tra loro profondamente diverse. Si disse che mancava il trait d’uniondegli anni Quaranta a rendere comprensibile la svolta, ed era vero, ma il risultato non sarebbe probabilmente cambiato: la qualità dei due periodi non è paragonabile. Guidi tra gli anni Dieci e Venti è un pittore di primissimo piano, oscillante in un difficile ma coerente equilibrio tra realismo magico e volumi di Novecento, purismo e punte di nuova oggettività alla Cagnaccio, erudizione iconografica e una certa naïveté. La sala dedicata ai ritratti della moglie Adriana, all’epoca incinta, è superba Guidi costruisce immagini familiari e ipnotiche, innervate da un colore denso e gonfio di luce: siamo nel 1928 e Guidi sta abbandonando la solidità toscana degli anni precedenti per masse più morbide e ma allo stesso tempo cromaticamente più accese. E la luce è da subito la qualità caratteristica delle sue marine: una Venezia inattesa, attenta alle periferie industriali e diversa dall’eredità stereotipata del grand tour anche quando si concentra sul bacino di San Marco, soggetto poi mai abbandonato. Negli anni Trenta i canali veneziani nella loro sequenza di volumi indistinti non sono così lontani dalle strade toscane di Rosai, virati però in un liquido colore espressionista. L’esperienza quotidiana della luce lagunare è così forte che Guidi si ritrova a schiarire progressivamente tavolozza e a far evaporare le figure. Dai suoi dipinti scompaiono le ombre. La Littorina, un altro degli apici della mostra, ri- prende a distanza di dieci o poco più la sospensione del Tramma con una leggerezza e una trasparenza di colore completamente diverse. Si iniziano qui a riconoscere gli elementi che diventeranno presto cliché: i volti a losanga, la stilizzazione sempre più astratta, i corpi inclinati. Nel dopoguerra Guidi aderisce allo spazialismo, mantenendo una impostazione figurativa e sconfinando a tratti in una astrazione prima espressionista e poi geometrica. Ma quando Guidi perde il contatto, magari sognante, con la realtà e con la storia, sembra perdere anche se stesso. Il percorso è coerente, ma visto a ritroso qualitativamente involutivo. Nei grandi occhi, nelle figure umane agitate o che si levano e nei giudizi (Guidi è pittore fortemente religioso), nelle teste/ maschere, negli alberi, nelle marine spaziali, la luce e la forma si diluiscono in grandi gesti privi di nerbo. Difficile non pensarla come De Grada per il quale, scriveva nel 1954, «gli ultimi quadri si spiegano invece soltatno con il suo simpatico interesse per ciò che fanno i giovani e con la debolezza del suo senso autocritico». Virgilio Guidi resta invece grande paesaggista fino all’ultimo. Qui la luce ritrova densità e un’aderenza alla sua dimensione percettiva anche quando trasfigurata. È pastosa e vibrante nelle vedute di Terracina, mentre dà corpo impalpabile ai miraggi di nebbia dei bacini di San Marco, con i volumi azzurri di San Giorgio e della Salute gonfiati dal sogno e i campanili come interminabili obelischi.