Agorà

Bologna. Eugene Smith: il bianco e nero, senza bianco

Giuseppe Matarazzo venerdì 18 maggio 2018

Forgiatore, 1955-1957(Gift of the Carnegie Library of Pittsburgh, Lorant Collection © W. Eugene Smith / Magnum Photos)

È una fotografia in bianco e nero. Ma il bianco quasi non c’è. È tutt’al più grigio. È fumo. È ricerca del bianco, della limpidezza dell’animo umano, rispetto a una visione nera, scura, di dolore che prevale. È desiderio. Il desiderio della luce, della verità. Di quel bianco che contrasti il nero. Del bene che vinca sul male. È la fotografia secondo William Eugene Smith. Il fotografo americano, nato il 30 dicembre del 1918 a Wichita, nel Kansas, che ha fatto la storia della fotografia della prima metà del Novecento, era assoluto. Lo era come altri della sua generazione: mai scorciatoie, mai sbavature, mai errori. Una fotografia di documentazione che avesse anche una armonica carica estetica. Ma Smith ha cercato l’oltre: era ossessionato dalla perfezione del suo racconto. Una continua ricerca che non gli permetteva di trovare pace. Dal 1944 cominciò a viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per la rivista. In pochi anni divenne, insieme a Margaret BourkeWhite, uno dei grandi eroi del reportage e del saggio fotografico. Il medico di campagna, Vita senza germi, Il villaggio spagnolo, La levatrice, Charlie Chaplin al lavoro, Il regno della chimica e Un uomo compassionevole sono tra i servizi più celebri che siano mai stati realizzati. Sequenze di fotografie buie, a volte perfino cupe, come fossero un grido al mondo, perché trovasse la luce, l’umanità. Un tormento interiore che lo portò ad avere rapporti burrascosi con le riviste con cui lavorava, a cominciare proprio da “Life” (che lasciò per un diverbio), e nella vita privata: la rottura con la famiglia, con la moglie Carmen Martinez e con i quattro figli. Fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on-Hudson e si trasferì a New York, dove andò ad abitare in un loft all’interno di un edificio in cui si suonava jazz, sulla Avenue of the Americas. A quel punto gli giunse la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le 80 e le 100 foto della città di Pittsburgh, in Pennsylvania. Un incarico che si trasformò giorno dopo giorno nel progetto più ambizioso della sua vita e poi nel suo fallimento più doloroso: quei due mesi diventarono due o tre anni, e poi il resto della sua esistenza. Raccontare Pittsburgh e realizzare – a partire dai quasi 20.000 negativi e 2.000 masterprints– il grande libro della città industriale, fumosa, simbolo dell’energia americana divenne la sua ossessione. E la sua grande incompiuta. Di tutto quel lavoro, pubblicò delle briciole, nel 1959, in Pittsburgh-W. Eugene Smith’s Monumental Poem to a City, con un layout di 36 pagine dello stesso Smith sulle pagine di “Photography Annual”, an-È nuario della rivista “Popular Photography”. Ben altra cosa rispetto al libro monumentale che aveva in testa. Ora una piccola ma preziosissima parte di quella testimonianza è visibile al Mast di Bologna (fino al 16 settembre), nella mostra W. Eugene Smith: Pittsburgh, curata da Urs Stahel (catalogo Mast/Electa). L’innovativo polo artistico ospita 170 stampe vintage provenienti dalla collezione Carnegie Museum Art di Pittsburgh che raccontano innumerevoli aspetti della città, così come la vedeva Smith. Un grande regalo ai sempre più numerosi amanti della fotografia.

«W. Eugene Smith – ha detto Urs Stahel presentando la mostra – lottava per rappresentare l’assoluto. Ben lungi dall’accontentarsi di documentare il mondo, voleva catturare, afferrare, almeno in alcune immagini, niente di meno che l’essenza stessa della vita umana». E lo si avverte pienamente scorrendo le foto esposte: operai al lavoro (una delle più celebri foto di Smith è quella, iconica, statuaria, dell’operaio con gli occhiali), panorami di città fra i fumi delle fabbriche, bambini che giocano agli angoli delle strade, scene di vita familiare, prospettive di edilizia residenziale e persino i politici che discutono per prendere, «troppo spesso, inevitabilmente», una decisione che «favorisce qualcuno e colpisce gravemente un altro». Le frasi che accompagnano le foto di Smith rivelano la sua missione rivelatrice: «Sto cercando ciò che è veramente reale nel mio cuore: e quando l’avrò trovato, potrò stargli umilmente accanto e dire: “Ecco qui, questo è ciò che sento, questa è la mia onesta interpretazione del mondo; e non è influenzata dal denaro, da inganni o pressioni - tranne la pressione della mia anima”». Ancora più potente è una lettera alla madre che chiude il percorso espositivo, come fosse un testamento: «Carissima mamma, sono calmo come una laguna addormentata, anche se questa, come me, potrebbe nascondere un vulcano sul punto di eruttare. Chi ti ha detto che c’è la possibilità che io venga fatto fuori, o che li faccia fuori. Dopotutto sono i miei otto dollari (in prestito) contro i loro otto miliardi (una cifra immaginaria)… Forse stiamo camminando tenendoci per mano, io e la tragedia, e con la disperazione siamo in tre. Anche se il mio stomaco freme come quello di una danzatrice del ventre, la danzatrice è pagata, mentre il mio si va corrodendo… In altre parole, non allarmarti - sono in arrivo difficoltà, ma non devastazione. E ciascuno avrà il denaro che gli spetta».

Nel saggio Pietà: W. Eugene Smith, il celebre critico e storico dell’arte scomparso l’anno scorso, John Berger, dà la sua lettura del personaggio Smith: «Il suo atteggiamento nei confronti delle parole e della musica, della sua stessa arte era essenzialmente religioso. Per lui l’arte era una specie di redenzione. Musica e parole facevano da contorno al dramma della ricerca della bontà. La fotografia rappresentava il suo modo di cercarla, la sua ricerca. Non era un solitario. Era alla ricerca di una verità che, per sua natura, non era palese. Una verità che aspettava di essere rivelata da lui e da lui solo. Voleva che le sue immagini convertissero in modo che gli spettatori riuscissero a vedere al di là delle menzogne, della vanità, delle illusioni della vita di tutti i giorni». E continua: «Il suo eccezionale uso del bianco e nero era strettamente connesso al suo senso della vocazione. Attraverso l’oscurità Smith si appropria del mondo: lo trasforma in un cupo, terribile, teatro morale dove le anime cercano bellezza o redenzione... ». Gli scatti al Mast sono espressione limpida di questo rigore, di questa ricerca della «luce, che è speranza ». «Dobbiamo a W. Eugene Smith – conclude il curatore – uno dei ritratti di città più grandiosi e alcune delle fotografie più profondamente umane che si conoscano, nonostante egli abbia lottato invano per vent’anni della sua vita per passare dalla rappresentazione al quadrato nero (come Malevic), dall’immagine alla reliquia, dall’effimero alla verità. Nella storia della fotografia nessuno mai aveva tentato questa impresa con una tale tormentosa veemenza: Smith non voleva rappresentare il sangue, lui cercava il sangue ». Ed ecco le sue foto in bianco e nero. Ma nere e grigie. Dove il bianco è ancora da trovare.