Agorà

Idee. Siate autorevoli: lasciate andare

Alessandro Zaccuri giovedì 6 maggio 2021

Serve ancora l’autorità? E, nel caso, a che cosa serve? A esercitare il controllo oppure a «lasciar andare»? Sono le domande che Mauro Magatti e Monica Martinelli si pongono nel saggio La porta dell’autorità ( Vita e Pensiero, pagine 248, euro 16,00). Quale sia la loro risposta, lo si comprende già dalle virgolette messe attorno a quelle due parole – «lasciar andare», appunto – che di primo acchito sembrerebbero contrastare e addirittura negare qualsiasi principio di autorità. Attenzione, però, perché «lasciar andare» non è “lasciar correre”: è un’azione educativa, non permissiva; è un evento generativo, non un’ammissione di resa. A questa conclusione il libro giunge al termine di un percorso adeguatamente articolato, lungo il quale si intrecciano in modo molto felice le rispettive competenze degli autori, entrambi docenti di Sociologia all’Università Cattolica di Milano. Negli ultimi anni, infatti, Magatti si è sempre più spesso occupato delle diverse declinazioni che il potere assume nel contesto contemporaneo, fornendo in Verso l’infinito (Feltrinelli, 2018) una convincente e appassionata «storia sociale della potenza», che proprio nella Porta dell’autorità trova adesso un ulteriore sviluppo. Da parte sua, Martinelli è tra le maggiori studiose di Georg Simmel, figura capitale e pionieristica della ricerca sociologica, al servizio della quale il pensatore tedesco mise la sua singolare sensibilità simbolica. Da Simmel proviene, nella fattispecie, l’immagine della porta, che per Magatti e Martinelli « dice che è essenziale all’uomo porre a se stesso un limite, nella possibilità del suo superamento ».

Questa è, per estensione, la funzione dell’autorità, che non si manifesta tanto nell’atto di chiudere, quanto piuttosto in quello di aprire. «L’uomo – ribadiscono gli autori – separa ciò che è collegato e collega ciò che è separato», secondo un duplice andamento nel quale risiede il significato stesso dell’autorità. La quale è in sé duale e come tale va perseguita, così da evitare che questa complessità originaria si trasformi in dualismo. La distinzione può apparire sottile, ma è tutt’altro che irrilevante. Ciò che è duale accoglie al suo interno la differenza, mentre il dualismo la respinge, impantanandosi nella contraddizione o, peggio ancora, sfociando in una conflittualità permanente. Per cogliere il significato di questa vocazione duale è opportuno rifarsi al dato etimologico. Augere, il verbo latino dal quale l’autorità discende, indica sì la facoltà di coltivare e accrescere (da qui la qualifica dell’Augustus), ma implica anche un’intenzione fondativa, come di un seme messo a dimora (l’auctor è colui che concepisce un’opera e le conferisce dignità). Il riferimento alla romanità è determinante, dato che è in questo ambito storico che l’auctoritas si sviluppa come concetto autonomo rispetto alla potestas, con la quale dovrebbe intrattenere un rapporto dialettico. In realtà, con il passare del tempo, l’autorità tende sempre di più a confondersi con il potere, fino a perdere completamente il suo specifico valore di «eccedenza », di apertura, di relazione con un fondamento che non coincide con il mero esercizio del dominio sull’altro.

L’autorità, al contrario, presuppone il riconoscimento dell’altro. Meglio ancora, presuppone l’esistenza di altre autorità con le quali entrare in dialogo in modo da avviare un processo di legittimazione reciproca. Certo, tutto sta intendersi di quale autorità stiamo parlando. A questa «autorità autoriale», che favorisce lo sviluppo di quanto ha contribuito a generare, si affianca un’«autorità autoritaria » che è il risultato della vicenda storico-concettuale ripercorsa con estrema finezza da Magatti e Martinelli. In estrema sintesi, si può affermare che il tentativo medievale di promuovere la dottrina delle «due spade», secondo la quale la potestas politica verrebbe a essere temperata dall’auctoritas religiosa, entra definitivamente in crisi con il trauma della Riforma, che si impone come modello, non importa se inavvertito, di ogni successiva contestazione. Il problema è che l’autorità contro la quale la modernità si ribella, in una successione di episodi e di teorizzazioni che trovano provvisoria sistemazione negli sconvolgimenti del Sessantotto, è in effetti un’autorità malintesa, perché ormai deprivata dei suoi elementi più caratteristici. In un certo senso, è inevitabile che venga rifiutato questo fantasma di autorità che si compiace della propria immutabilità, come se una determinata configurazione del passato fosse destinata a durare per sempre e a essere applicata in qualsiasi situazione.

È la tentazione che, nello scenario attuale, porta all’esaltazione della leadership, con la conseguente nostalgia per il mito dell’uomo forte. Ma anche un fenomeno in apparenza diverso, come quello degli influencer, risponde a una logica analoga, che fa perno su una presunta autorevolezza che non ammette altro fondamento fuori da sé stessa. Una volta che si chiude, la porta dell’autorità impedisce qualsiasi accesso alla trascendenza e, così facendo, mortifica quell’«eccentricità» che è propria dell’essere umano. «La parete è muta. Ma la porta parla», scriveva il già ricordato Simmel, fissando un’intuizione che si ritrova in Romano Guardini, in Zygmunt Bauman e in tanti altri dei testimoni (o auctores, come avrebbero detto i medievali) convocati da Magatti e Martinelli. A queste attestazioni se ne potrebbe forse aggiungere un’altra, presa dalla Scrittura. Sono le parole che nell’Apocalisse vengono rivolte all’angelo della Chiesa di Laodicea, «Ecco: sto alla porta e busso». Non fosse altro che per questo, è bene che nessuna porta si chiuda mai del tutto.