Agorà

Novecento. Morte e diaspora: l'Armenia di Manook

Gianni Santamaria giovedì 21 aprile 2022

La deportazione di una famiglia armena

«I bambini non capiscono nulla della guerra. Preferiscono stuzzicare gli scarabei dorati nell’ombra azzurra degli eucalipti». Eppure, ed è la cronaca di questi giorni a sbattercelo in faccia, sono loro a subirne le conseguenze più atroci, psicologiche e fisiche fino a perdere, con la vita, il futuro. Personale e collettivo. È fulminante l’incipit de L’uccello blu di Erzerum di Ian Manook, scrittore, editore e giornalista francese di origine armena. Esce oggi in libreria per Fazi (pagine 520, euro 20,00) in vista della Giornata per il ricordo del genocidio armeno che si celebra il 24 aprile. Lascia enza fiato la sarabanda di crudeltà che l’autore descrive, rifacendosi ai ricordi della nonna. In una sorta di 'disclaimer' iniziale l’autore confessa di avere eliminato le due scene più crude per timore che fossero credute un tentativo di calcare la mano. Ci si chiede cosa potessero contenere, visto l’orrore di quanto narrato. Donne violentate e squartate, cavalieri che cercano i bimbi rimasti a vagare da soli per decapitarli, cadaveri ovunque. Una strage degli innocenti, un feroce odio, anche religioso, verso gli armeni cristiani da parte di turchi e curdi musulmani. Protagoniste della storia sono due sorelline, Araxie (la nonna dell’autore) e Haïganouch, 10 e 6 anni all’inizio della storia, che coincide con il 1915 punto di partenza del biennio genocida. Nella prima scena la madre viene bruciata viva e la seconda bimba resta cieca. Vengono affidate a parenti ad Erzerum. Ma qui inizia una lunga deportazione. Una marcia della morte in cui i parenti vengono uccisi, vengono salvate da un’anziana che si finge la loro nonna e insegna loro a nutrirsi di semi raccolti dallo sterco di cavallo essiccato. E a sopravvivere alla marcia della morte. Prima che arrivino nel micidiale deserto di Deir-er-Zor o nei campi di prigionia di Aleppo, la salvezza si materializza quando un medico le acquista come schiave. Divengono amiche di sua figlia, Assina, che appena 15enne è data in sposa a un uomo molto più grande e violento. Finirà per ucciderlo dopo aver scoperto che è stato lui a denunciare e far impiccare il padre, che - di mentalità chiusa, ma uomo buono ha aiutato degli armeni. E a causare così la pazzia della madre. Alle due giovani viene tatuato sul braccio l’uccello blu del titolo, un merlo che accompagna la storia comparendo di tanto in tanto - quale segno di persistenza della speranza e della volontà di farcela - tra eccidi e ricordi d’infanzia, come quello legato agli scarabei dorati. In nome della voglia di resistere, alla storia delle due bimbe si alterna quella di Haïgaz e Agop, due ragazzi armeni che vivono di furtarelli e, di notte, vanno a uccidere soldati turchi per vendetta. Dopo una serie di peripezie tra Medio Oriente ed Europa, in anni decisivi che vedono il crollo dell’Impero ottomano alla fine della Grande guerra, Haïgaz in Francia incontrerà e sposerà Araxie. Mentre la sorellina cieca finirà in Unione Sovietica, dove diventerà poetessa, dono che ha coltivato già dall’infanzia martoriata. Il romanzo si chiude nel 1939 alla vigilia di una nuova guerra. L’intento di Manook è di realizzare una narrazione corale in modo da abbracciare quattro generazioni e tre continenti. Lo spiega in un video reperibile on-line sul canale YouTube dell’editore francese Albin Michel, presso il quale L’Oiseau bleu d’Erzeroum è uscito come primo volume, lasciando intendere che ve sarà un secondo. La sua, dice Manook, «è soprattutto una dichiarazione d’amore alla diaspora. Io sono molto interessato alle culture nomadi, più che alla rivendicazione del genocidio, al bisogno di giustizia e di riconoscimento. Più che di questo voglio arrivare a parlare di come nasce, si sviluppa e si consolida una diaspora». Di Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, classe 1949, ha avuto successo la trilogia dedicata al commissario mongolo Yeruldelgger, pubblicata in Italia sempre da Fazi che ha in catalogo anche altre opere di questo autore. Il romanzo armeno di Manook si situa nel filone della riscoperta della radici, anche quelle più dolorose, da parte dei figli e nipoti dei sopravvissuti sparsi nel mondo. Con uno sguardo, però, ampio e aperto. Infatti, il libro è dedicato «ai bambini di tutte le diaspore, che arricchiscono con la loro cultura quella che li accoglie. Che le loro differenze si uniscano, invece di escludersi». In Italia è stata Antonia Arslan con La Masseria delle allodole (Rizzoli, 2004) e altre sue opere a far prendere coscienza (e conoscenza) sul tema. Mentre Aline Ohanesian, nata in Kuwait e residente negli Usa, che aveva letto del genocidio solo sui libri, ha scoperto l’importanza di quell’evento per la sua famiglia, trasponendo i ricordi dolorosi della bisnonna in Raccontani dei fiori di gelso (Garzanti 2016). Senza contare i numerosi volumi che si situano più sul piano della memorialistica. E senza dimenticare il grande monumento letterario al genocidio armeno costituito dai Quaranta giorni del Mussa Daghdi Franz Werfel (Corbaccio), uscito nel 1933, anno della presa del potere da parte di Adolf Hitler al quale viene attribuita la celebre frase per spronare i suoi a eliminare gli ebrei: «Chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?». Il caporale austriaco compare nel libro di Manook in una specie di cameo, quando va a fare visita alla figlia del diplomatico tedesco ricoverata in Germania perché rimasta paralizzata dallo shock subito alla vista della massa di cadaveri trascinati dal fiume (scene rivissute non moltissimi anni fa in Rwanda). Scena che fa parte della ricostruzione storica minuziosa che Manook fornisce nelle sue pagine e fa da contrappunto alle peripezie dei personaggi. Ma i due piani sembrano non arrivare mai ad allinearsi. La politica segue le sue logiche e decide brutalmente delle sorti dei civili. A questi resta la sofferenza.