Agorà

Il caso. Hannah scuote la banalità del cinema

Alessandro Zaccuri mercoledì 12 febbraio 2014
Per lunedì prossimo al Palestrina di Milano cento posti sono già assicurati. Niente male, con la crisi che continua ad affliggere le sale cinematografiche italiane. Tutto merito del film in cartellone, certo. Ma anche di chi su quello stesso film ha deciso di investire, forzando le regole di un mercato che in questa fase rimane dominato da una prudenza forse eccessiva, se non addirittura dalla sfiducia nei confronti del pubblico.Il titolo in questione è Hannah Arendt di Margarethe Von Trotta, rigorosa e appassionante ricostruzione del dibattito che, nei primi anni Sessanta, accompagnò la pubblicazione di La banalità del male. Un classico della letteratura sulla Shoah, nato dal reportage – all’epoca contestatissimo – che la pensatrice Hannah Arendt realizzò da Tel Aviv, dove si svolgeva il processo al criminale nazista Adolf Eichmann. In Italia il film, interpretato da Barbara Sukowa, è stato inizialmente presentato da Ripley’s e Nexo Digital come “evento speciale” in occasione della Giornata della Memoria. Due sole date, il 27 e il 28 gennaio, con un buon risultato in termini di pubblico (oltre 30mila persone) e di incasso (circa 200mila euro). Fra le sale coinvolte nell’operazione c’era anche il Palestrina di Milano, appunto, alla cui programmazione collabora il Centro Culturale di Milano insieme con l’associazione Sentieri del Cinema. «Hannah Arendt ha subito suscitato un’attenzione da cui siamo rimasti molto colpiti – spiega Camillo Fornasieri, direttore del Centro –. Parliamo di quasi un migliaio di spettatori nell’arco di 48 ore. Diverse scolaresche, specie negli spettacoli del mattino, ma anche personalità della cultura come i filosofi Francesco Botturi e Gianfranco Dalmasso. E molti, moltissimi giovani. Non eravamo riusciti a soddisfare tutte le richieste, parecchi erano rimasti fuori dal cinema e, giustamente, si erano lamentati. Da qui l’idea di riproporre il film ancora per qualche giorno».Al Palestrina Hannah Arendt è in programma tutti i lunedì di febbraio e per il giorno 17 un centinaio di poltrone sono prenotate dagli studenti di un seminario universitario sulla Banalità del male. Ma qualcosa del genere sta accadendo anche in altre città, da Mantova a Roma, da Padova a Perugia (le sale sono una ventina, per l’elenco completo: www.nexodigital.it). Un fenomeno “dal basso” giudicato positivamente da Lionello Cerri, presidente dell’Anec (Associazione nazionale esercenti cinema): «Nel contesto attuale un film come questo rappresenta una proposta alternativa – afferma –. Siamo ai margini del mercato, in un certo senso, ma proprio per questo è importante sperimentare forme di distribuzione diverse da quelle tradizionali. Il digitale, nella fattispecie, offre molte possibilità e permette una progettazione più articolata, capace di venire incontro alle richieste di una parte del pubblico e, nello stesso tempo, di stimolare la curiosità degli altri».La tecnologia, in effetti, gioca un ruolo rilevante. La distribuzione di Hannah Arendt avviene interamente per via digitale, con modalità molto più flessibili rispetto a quelle convenzionali. «Un titolo come questo difficilmente sarebbe arrivato in così tante sale se fosse uscito in programmazione ordinaria – ribadisce il fondatore di Nexo Digital, Franco di Sarro –. Non dimentichiamo che il film, girato in tre lingue (inglese, tedesco ed ebraico), viene proiettato in versione originale sottotitolata. Eppure la risposta del pubblico c’è, ed è davvero sorprendente». Gli fa eco Antonio Autieri, direttore di Sentieri del Cinema: «Ora come ora la logica dell’evento permette di proteggere i film di maggior qualità, anche attraverso una strategia di comunicazione più mirata e capillare. L’importante, in ogni caso, è che la proposta culturale sia forte, riconoscibile e ben strutturata. I precedenti, del resto, non mancano».Prima di Hannah Arendt il caso più clamoroso era stato quello di Katyn il capolavoro di Andrzej Wajda sul massacro degli ufficiali polacchi perpetrato nel 1940 dalle truppe sovietiche.«Era il 2007 e a Milano non si trovava un cinema disposto a proiettarlo – ricorda Autieri –. A pesare, allora, non erano tanto le preoccupazioni economiche, quanto le ragioni ideologiche. Di Katyn nessuno ha mai parlato volentieri, dopo tutto è un eccidio che l’Urss cercò di addebitare ai nazisti attraverso una serie impressionante di menzogne e insabbiamenti. Alla fine lo portammo al Palestrina per una sera. Rimase in cartellone per due mesi e quello di Milano fu il miglior incasso di tutta Italia». E il discorso, volendo, si potrebbe allargare ad altri successi degli ultimi anni, dal Grande silenzio di Philip Gröning a Uomini di Dio di Xavier Beauvois: titoli in apparenza poco attraenti, ma che al botteghino si sono difesi benissimo.«L’impressione – conclude Fornasieri – è che con Hannah Arendt si sarebbe potuto rischiare un po’ di più. Oggi purtroppo non si ha il coraggio di riconoscere nel cinema una forma d’arte aperta al dibattito, alla riflessione, alla sfida e alla necessità del pensiero, come la protagonista del film della Von Trotta ripete a più riprese. Penso a un altro esperimento fatto qui a Milano negli ultimi anni: L’isola di Pavel Lungin, un film russo sui temi del tradimento e del riscatto che in Italia era circolato pochissimo, a dispetto dello straordinario successo riscosso in patria. A Mosca, per esempio, è rimasto in sala per sei mesi. Anche al Palestrina è andato benissimo. L’unico rammarico è di essere stati i soli a crederci, a provarci».