Agorà

Lingua. Aiuto, si sta estinguendo il fiorentino

Giacomo Gambassi martedì 2 febbraio 2016

Per le vie di Firenze, quando si tocca il tasto della lingua – croce e delizia di una comunità orgogliosa del suo modo di esprimersi – è facile sentirsi dire: «Noi le parole le mangiamo, ma le son italiane: la vada a vedere su i’ vocabolario, la vedrà che le troverà tutte». Nonostante qualche difetto di pronuncia e diverse licenze grammaticali, la parlata all’ombra del campanile di Giotto è tra i fiori all’occhiello di una città che si considera (e in gran parte è) la culla linguistica del Belpaese. Da Dante, Petrarca e Boccaccio che l’hanno codificata nei loro scritti ad Alessandro Manzoni, venuto a risciacquare in Arno i suoi Promessi sposi, la lingua di Firenze è stata il serbatoio da cui l’italiano ha attinto a piene mani. Eppure la “madre” del nostro idioma nazionale rischia di scomparire. Cancellata da un’omologazione comunicativa che è figlia sia della scuola, sia della televisione (o comunque del mondo dei mass media).

Provare per credere. Ormai, a due passi da Palazzo Vecchio, i giovani non acquistano più un quartierino ma un ordinario appartamento. Se si cercano chiodi o viti a San Frediano non si va in mesticheria ma in una banale ferramenta. Una confezione di biscotti viene scialbamente aperta e non – come si era soliti ripetere di fronte al duomo di Santa Maria del Fiore – marimessa. Ancora. Un mollaccione, magari anche dai riflessi lenti, non è più chiamato un pappamea; e un ciottolo del fiume ha perso il ben più colorito sinonimo di pilloro. Persino una persona che agisce di fretta e senza pensare troppo non si vede più affibbiare l’etichetta di ceccofuria. Insomma, l’italiano delle origini viene risucchiato da un “italiano senza aggettivi” che conserva poco di quel “toscano alto” diventato il paradigma dell’italiano parlato secondo un’impostazione filomanzoniana adottata fra Ottocento e Novecento.

A lanciare l’allarme sulla possibile “morte” del fiorentino è l’Accademia della Crusca, la principale istituzione per la tutela della lingua italiana che ha la sua sede proprio a Firenze, nella Villa Medicea di Castello. Dal 1994 è impegnata nell’operazione “Salviamo le parole di Firenze”. Ufficialmente il progetto si chiama “Vocabolario del fiorentino contemporaneo”. «E nasce dal bisogno di testimoniare un lessico che nella comunità fiorentina sta andando incontro all’obsolescenza», spiega il coordinatore Neri Binazzi, docente di linguistica italiana all’Università di Firenze. Sono già 900 i termini individuati dalla Crusca che corrono il pericolo di estinguersi e che sono stati inseriti nell’edizione cartacea del Vocabolario del fiorentino contemporaneo. Ma la versione online (sul sito www.vocabolariofiorentino.it) è ben più nutrita. «E, quando entro un anno verrà stilato l’elenco completo, si aggirerà fra i seimila e i settemila lemmi», anticipa Binazzi.

Il docente indica almeno due ragioni che stanno dietro all’eclisse del patrimonio linguistico targato Ponte Vecchio. «Innanzitutto l’indebolimento è legato alla pressione dell’italiano. A Firenze fino a qualche decennio fa l’unica parola impiegata per chiamare l’idraulico era trombaio. Oggi è confinata nell’alveo degli anziani o al massimo compare nelle insegne storiche di qualche negozio, ma per le nuove generazioni rasenta quasi l’arcaismo. Ciò è dovuto a un livellamento imposto della voce nazionale “idraulico”». Il secondo motivo ha a che fare con la modernità. «Si perdono vocaboli che descrivevano attività o usanze di fatto superate. Pensiamo a sommommolo che indicava la frittella di riso venduta in strada per la Quaresima dagli ambulanti oppure a renaiolo, l’operaio che prelevava la sabbia lungo le rive dell’Arno».

Il sipario sta calando anche su termini popolari che magari, nell’ultimo secolo, sono entrati nelle pagine di grandi autori della letteratura, convinti che non si potesse prescindere dal “toscaneggiare” lo spettro delle parole per scrivere. Racconta Binazzi: «Acquaio, inteso come il lavello della cucina, è una voce che gli anziani utilizzano a tappeto ma i giovani di oggi molto meno. Tuttavia non ha molte alternative: se diciamo lavandino o lavello, a Firenze viene in mente esclusivamente l’accessorio per il bagno. Altra voce quasi scomparsa è desinare. Siamo di fronte a una perdita dolorosa perché il desinare è diverso dal pranzo: il pranzo rimanda a cibi scelti ed elaborati; il desinare è il consueto pasto di mezzogiorno».

Qualcuno potrebbe obiettare: in fondo sono soltanto termini territoriali. Ma il fiorentino non può essere ritenuto un dialetto alla stregua degli altri presenti nella Penisola in quanto ha rappresentato, dalle «Tre Corone» in poi, il punto di riferimento per la lingua nazionale. Certo, esiste uno scarto, una specificità della lingua di Firenze. «Lo testimonia il fatto che non tutte le parole germogliate nel capoluogo toscano sono state accolte dall’italiano, mentre costituiscono uno dei mattoni dell’identità di questo angolo del Paese», sottolinea il referente del progetto. Ecco, allora, che la Crusca sta andando a cercarle intervistando gli abitanti “doc” della città fra case private, circoli e luoghi di ritrovo per testare la sopravvivenza delle voci in bilico. È il caso di brindellone, appellativo che era abituale per descrivere chi è alto e dondolante (dal nome del carro che esplode davanti alla cattedrale di Firenze nella mattina di Pasqua), oppure limìo che racconta un’ansia, una preoccupazione interiore. Proprio il repertorio lessicale legato a un luogo è soggetto a una particolare erosione. «Come le altre varietà locali parlate nella Penisola – osserva il docente –, anche il fiorentino fa i conti con l’italiano e ciò che l’italiano di oggi non recepisce fa sempre più fatica a mantenersi anche in Toscana».

Oltre i confini della regione la lingua di Firenze può apparire poco ortodossa. Però il vernacolo che si parla intorno al battistero di San Giovanni è talvolta ben più corretto dell’italiano standard. Nell’ex Granducato il congiuntivo è ancora di casa; non si ricorre mai – sbagliando – alla locuzione piuttosto che come equivalente della o disgiuntiva; ed è di uso corrente codesto o costì (impiegati in modo appropriato, non alla rinfusa). «Un aggettivo e un avverbio irrinunciabili per i fiorentini – conclude l’esperto della Crusca –. Qui non ci si capacita quando codesto viene risucchiato da quello, come avviene fuori della Toscana. Sono elementi importanti che in città hanno una notevole vitalità e fanno di Firenze uno scrigno peculiare per la nostra lingua». Da non perdere.