Steph Curry: fede e canestri, le confessioni del campione Nba

Il fuoriclasse 37enne, si racconta in un'autobiografia: «Prima che cestista, sono un padre e un marito. E prima ancora sono credente, perché quello è alla base di tutto ciò che faccio»
September 25, 2025
Steph Curry: fede e canestri, le confessioni del campione Nba
Ansa | Stephen Curry, fuoriclasse dei Golden State Warriors, tra i cestisti più forti di sempre
Non lasciatevi ingannare da quella faccia da eterno bambino. Lui è uno dei tiratori più spietati ancora in circolazione, il giocatore con il maggior numero di tiri da tre segnati nella storia della Nba. Oltre a una serie di record che può ancora migliorare visto che a 37 anni Steph Curry non ha nessuna intenzione di ritirarsi dai parquet. E quella che inizierà ad ottobre sarà la sua 17esima stagione nel massimo campionato Usa, sempre con la stessa canotta, la maglia dei Golden State Warriors. Con la franchigia californiana ha messo in bacheca quattro titoli Nba e una sfilza di primati personali che ne fanno uno dei migliori cestisti di sempre. Il primo tra le star del celebre torneo statunitense a superare, nel marzo scorso, i 4 mila tiri da tre messi a segno in carriera. Ma i numeri pur eccezionali dicono poco del lato più intimo del campione, la sua spiritualità profonda e i princìpi di un uomo che prima di essere un fuoriclasse è un marito e papà felice di quattro figli (Riley, Ryan, Canon e Caius nato l’anno scorso). È lui stesso a metterlo in chiaro nell’imponente autobiografia appena uscita anche in Italia “ Shot ready. Nato per tirare” (Rizzoli, pagine 432, euro 30, traduzione di Silvio Bernardi) corredata da un centinaio di pregevoli fotografie. È la storia di un talento che ha dovuto però sudare parecchio per affermarsi ad alti livelli. Pochi erano convinti che ce l’avrebbe fatta a imporsi nel basket muscolare quel ragazzino esile e tutt’altro che gigante: «A seconda del taglio di capelli – annota con ironia oggi - arrivo a stento al metro e novanta, in una lega in cui la media è due metri».
Figlio d’arte (il padre cestista di lungo corso in Nba) non esita nel riconoscere i meriti dei genitori, anche della madre maestra di scuola elementare («Se da mio papà ho imparato i trucchi della pallacanestro, da mia mamma ho imparato a imparare»). Un’ascesa in cui attribuisce un ruolo essenziale a sua moglie Ayesha, di cui è innamorato sin dal primo giorno: «La ragazza più bella che avessi mai visto. Ci siamo conosciuti in parrocchia a quattordici anni, ed era talmente splendida – lo è ancora – che agli incontri giovanili del mercoledì sera facevo fatica a guardarla negli occhi». Dall’emozione di marcare per la prima volta Kobe Bryant all’ossessione del tiro perfetto: «Quando tiro dal cerchio di centrocampo, la meccanica è esattamente la stessa delle conclusioni in area. Se non hai uno stile perfetto a un passo dal canestro, è impossibile che tu ce l’abbia da dietro l’arco dei tre punti». Più della tecnica però è la testa a fare la differenza. Se gli si chiede qual è il tratto distintivo di qualunque grande tiratore non ha esitazione: «La ferma convinzione di essere il migliore di sempre. Per lasciare davvero il segno, occorre vivere sulla sottile linea di confine tra la fiducia in sé e l’arroganza. È l’etica del lavoro, però, a permetterti di restarci».
Una strada da imboccare senza paura di sbagliare: «Lo sport ci insegna dure lezioni sulla perseveranza e la fiducia in noi stessi; una di queste è che solitamente il successo arriva a prezzo di molti fallimenti». L’importante è rialzarsi, come cerca di insegnare anche ai suoi piccoli: «Ciò che conta non è come affrontiamo lo sconforto nei momenti di avversità, ma come reagiamo. È questo a farci crescere come persone». Essere padri è uno stimolo in più: «La paternità ti aiuta ad allargare la prospettiva… So che a loro non importa quanti punti ho fatto, se ho stabilito un nuovo record o se abbiamo vinto o perso: quando torno a casa, sono il loro papà e basta. I bambini si aspettano di ricevere da te una dose di positività pari a quella che a loro volta ti trasmettono ». A casa, in campo, tra la gente con l’impegno nel volontariato che condivide con sua moglie: l’ispirazione in ogni ambito è stampato anche sulle sue scarpe da gioco. È il suo versetto biblico preferito, tratto dalla lettera ai Filippesi di san Paolo ( Fil 4,13): «Tutto posso in Colui che mi dà la forza», frase che apre anche la sua autobiografia.
Lo sperimenta anche sul parquet: «Giocare consapevole che esiste uno scopo più grande mi viene spontaneo, anzi necessario, come respirare ». Del resto Curry non ha mai nascosto il suo credo, cristiano evangelico: «Non sono tipo da voler ficcare la Bibbia a forza in testa alle persone, ma amo parlare della mia fede. Lo faccio spesso, ogniqualvolta ne ho l’occasione, ma cerco anche di testimoniarla con i fatti. Prima che cestista, sono un padre e un marito. E prima ancora sono credente, perché quello è alla base di tutto ciò che faccio. Per conoscere nel profondo la mia persona e il mio modo di stare in campo, dunque, non si può prescindere da quello in cui credo e che mi ispira in ogni momento». La stella dei Warriors, il killer dall’aspetto bambino ( baby faced assassin come l’hanno ribattezzato), rivela che sin dalla prima partita è solito passare dalla cappella vicino allo spogliatoio prima che la gara abbia inizio: « Mi ricorda perché sono su questa Terra. E, non meno importante, mi suscita grande gratitudine, un sentimento di cui non dobbiamo mai dimenticarci, visti i doni che abbiamo ricevuto».

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