Nba: così gli atenei cattolici integrarono gli afromericani
Per tutta la stagione il campionato Usa di basket omaggerà i primi giocatori neri della storia. Ma dimentica che furono i college cattolici a lanciarli

Provate a pensare alla storia del basket senza le schiacciate di Michael Jordan, i ganci di Jabbar, gli assist di Magic Johnson o ai tiri in sospensione di Kobe Bryant… Probabilmente parleremmo di un altro sport. Di sicuro la pallacanestro non avrebbe avuto la magia, il fascino e il seguito che i grandi giocatori afroamericani hanno dato alla palla a spicchi. Da Bill Russell a LeBron James, da Julius Erving a Shaquille O’Neal, da Olajuwon a Steph Curry: dalle origini fino ai giorni nostri i cestisti neri hanno scritto e continuano a scrivere pagine leggendarie sotto canestro.
Si capisce dunque perché la Nba (al via questa notte) voglia ricordare con tutti gli onori il 75° anniversario dei primi giocatori afromericani della lega statunitense. Per tutta la stagione 2025/2026 verranno dunque omaggiati i pionieri Chuck Cooper, Nathaniel “Sweetwater” Clifton ed Earl Lloyd. Istituito per sempre anche un giorno speciale, l’Nba Piooners Day, il 1 febbraio 2026: due squadre diverse ogni anno si contenderanno un trofeo ad hoc (l’Nba Piooners Classic), per questa prima edizione la sfida sarà i Milwaukee Bucks e i Boston Celtics.
Se nel 1950 Cooper fu il primo giocatore afroamericano ad essere selezionato dalla lega (25 aprile), Clifton fu il primo a firmare con una squadra Nba (24 maggio) e Lloyd fu il primo a giocare una partita Nba (31 ottobre). «Il loro coraggio e la loro determinazione hanno cambiato il corso della storia» spiegano i vertici del celebre campionato Usa. Peccato però che accanto alla doverosa sottolineatura della grandezza dei pionieri manca almeno un cenno a coloro che ebbero l’audacia di lanciarli.
Bisogna allora fare un passo indietro agli Stati Uniti del dopoguerra segnato da forti barriere razziali. C’era una regola non scritta tra i proprietari di basket, tutti bianchi, secondo cui i giocatori afroamericani non sarebbero stati reclutati nella Nba. Walter Brown, fervente cattolico e primo proprietario dei Boston Celtics non fu mai d’accordo con questa norma. Nel 1950, in una piccola stanza dove erano riuniti tutti i proprietari, Brown annunciò: «Boston prende Chuck Cooper della Duquesne University». «Walter, quello è un negro», avrebbe dichiarato uno degli altri proprietari. E fu allora che pronunciò una frase diventata iconica: «Non mi interessa se è a righe, a quadri o a pois. Boston prende Chuck Cooper della Duquesne University», rispose Brown con enfasi.
Una dichiarazione che fece crollare il muro razziale, incoraggiando anche altri proprietari a mettere sotto contratto giocatori afroamericani. E difatti dopo pochi mesi i Washington Capitols scelsero Earl Lloyd e i Knicks presero Nat “Sweetwater” Clifton. Ma non è un caso nemmeno che Cooper fosse arrivato alla Nba grazie ai Dukes della Duquesne University, ateneo cattolico di Pittsburgh in Pennsylvania fondato dalla Congregazione dello Spirito Santo, ordine missionario francese dedicato all’educazione e alla giustizia sociale. Il ruolo giocato dai college cattolici nell’integrazione degli afroamericani fu decisivo. Le istituzioni educative fondate sin dalla fine del XIX secolo da gesuiti, agostiniani, maristi fecero del basket uno strumento di evangelizzazione e inclusione.
Lo stesso Bill Russell leggenda dalla palla a spicchi esplose nella squadra dei Dons dell’Università di San Francisco fondata nel 1855 come Saint Ignatius Academy da tre gesuiti di origine italiane (Antonio Maraschi, Joseph Bixio e Michael Accolti). L’ateneo aveva più giocatori afroamericani e rifiutava di accettare inviti a tornei o eventi che imponessero restrizioni razziali (ad esempio hotel segregati), sostenendo apertamente i propri atleti. Guidata dall’allenatore Phil Woolpert, i Dons con Bill Russell e l’altro giocatore nero K.C. Jones, portarono il team a due titoli Ncaa consecutivi (1955 e 1956).
E come si può dimenticare la rivoluzione dei Ramblers della Loyola University di Chicago. Ancora una volta un ateneo gesuita. Parliamo dell’università che nel 1961 aveva cominciato a schierare in campo quattro afroamericani in un’epoca in cui vigeva la regola non scritta di farne giocare al massimo tre. La Loyola divenne anche la prima squadra della Ncaa a schierare una formazione “tutta nera”, nella partita contro il Wyoming il 29 dicembre 1962. Ma il caso che fece più scalpore avvenne l’anno dopo: la vittoria dei Ramblers contro la squadra tutta bianca del Mississippi State. Una partita finita sotto i riflettori di tutti gli States perché i Bulldogs di Mississippi sfidarono un ordine del tribunale statale che proibiva loro di giocare contro una scuola con giocatori neri. Loyola dimostrò non solo di essere competitiva (nel 1963 vinse persino il titolo Ncaa) ma che una nuova barriera era stata abbattuta. Quell’incontro passò alla storia come “la partita del cambiamento”: mai nessuna gara ebbe una così grande influenza non solo nel basket universitario, ma anche nello sport e nella battaglia per i diritti dell’uomo. E così anche la pallacanestro non sarebbe stata più la stessa. Poi certo arrivarono Doctor J e Air Jordan, ma il salto più grande era stato già fatto.
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