Le maratone e gli eroi: la gara regina dell'atletica tra mito, storia e leggenda
Viaggio alle origini di una corsa leggendaria, nata sulle imprese di messaggeri impavidi, capaci di percorrere distanze lunghissime per portare informazioni cruciali, di vita o di morte

Chiedete a qualsiasi runner che incrocerete sulla vostra strada e vi saprà dire con esattezza perché la maratona, la gara più lunga dell’atletica leggera, misura quarantadue chilometri: è la distanza che separa Maratona da Atene, percorso che nel 490 a.C.
Filippide, un valoroso soldato, coprì per portare la notizia che i soldati ateniesi, dispiegati al fronte contro l’esercito persiano, avevano respinto l’attacco di quest’ultimo e che la battaglia era vinta. Una storia tanto eroica quanto tragica allo stesso tempo, culminata con la morte del soldato dopo la consegna del messaggio, sopraffatto dall’eccessivo sforzo. Ma se la storia fosse diversa da come ci è sempre stata raccontata? E se i chilometri percorsi da Filippide fossero molti di più dei più famosi quarantadue?
Lo racconta nel suo libro The Road to Sparta ( La strada per Sparta, FerrariSinibaldi, 2017) l’ultrarunner di origini greche Dean Karnazes, che nel 2014 partecipò alla Spartathlon. La manifestazione è un’ultramaratona che va da Atene a Sparta e ripercorre il vero tragitto che Filippide fece durante il conflitto tra i greci e i persiani. E questi, secondo fonti storiche, coprì una distanza ben superiore ai quarantadue chilometri. Infatti, Filippide non era un soldato, ma un emerodromo, un messaggero capace, correndo, di coprire grandi distanze in un sol giorno, recapitando messaggi da un luogo all’altro della Grecia. Gli venne chiesto in questa specifica occasione di consegnare a Sparta un messaggio di aiuto: convincere gli spartani a spedire un nutrito numero di soldati a Maratona in aiuto agli atenesi, per difendere la Grecia dall’attacco barbaro.
È a questo punto del racconto che il mistero comincia ad infittirsi: Atene distava da Sparta duecentoquaranta chilometri, non quarantadue. L’emerodromo coprì questa distanza in soli due giorni, corsi follemente e senza sosta. Giunto a destinazione convinse gli spartani, sebbene le due città fossero state spesso in guerra fra di loro, a venire in soccorso degli atenesi. Compiuto il primo sforzo, Filippide era pronto a ripercorrere i suoi stessi passi per tornare ad Atene ad annunciare l’arrivo dei tanti sperati aiuti da parte di Sparta.
C’era solo un problema: l’esercito spartano non sarebbe arrivato prima di sei giorni. Gli spartani credevano che fosse meglio combattere nei giorni di luna piena e in quei giorni la luna era crescente; quindi, il contingente militare non sarebbe arrivato prima di sei giorni. Filippide e tutti gli atenesi che dipendevano da lui non potevano aspettare e il messaggio andava consegnato: si riposò qualche ora e ripartì alla volta di Atene il giorno dopo. Altri duecentoquaranta chilometri, altri due giorni di corsa forsennata e ininterrotta. Assieme a Filippide nello stesso momento giunse ad Atene, per mano di un traditore persiano, un secondo messaggio: un gran numero di truppe persiane stavano navigando verso Atene. Il consiglio e le alte cariche militari dovettero modificare i propri i piani di battaglia in funzione di queste due notizie: l’arrivo tardivo degli aiuti da parte di Sparta, ma soprattutto l’imminente arrivo dell’esercito nemico. Fu deciso che cogliere di sorpresa i persiani rimasti nella piana di Maratona fosse il modo più efficace per prendere il controllo della battaglia in attesa degli aiuti.
All’alba del giorno dopo, nonostante l’inferiorità numerica (diecimila Greci contro sessantamila), i persiani furono colti alla sprovvista e dovettero cedere. E a chi spettò il compito di annunciare la vittoria al popolo ateniese? Il nostro eroe Filippide, a questo punto della storia, si trova ad Atene, a riposare dopo le immense fatiche, e non a Maratona. Secondo diversi storici greci del primo secolo il leggendario messaggero che corse da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria non sarebbe stato lui, ma un soldato di nome Eucle. Fu solamente durante il secondo secolo dopo Cristo che la narrazione fu cambiata e venne “costruita” la leggenda così come la conosciamo oggi.
Luciano di Samosata, scrittore di origine siriana, commise due errori: da una parte, si dimenticò di Eucle e attribuì a Filippide l’impresa di aver corso quei famosi quarantadue chilometri da Maratona ad Atene, entrando in città al grido di «Nike! Nike! Nenikékiam! (Vittoria! Vittoria! Abbiamo vinto!) prima di crollare al suolo e morire per il grande sforzo; dall’altra non restituì alla storia la ben più ardua impresa di Filippide, quella di aver corso quattrocentottanta chilometri in quattro giorni, senza morire. Tuttavia, per gli antichi greci nulla era più nobile che cadere per difendere la patria e la morte andava celebrata. Ecco perché oggi, per la gioia di milioni di runner, la maratona misura “solamente” quarantadue chilometri: per celebrare il sacrificio di un valoroso soldato, qualunque esso sia, caduto nel nome della sua città.
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