Finn, la grande speranza del ciclismo italiano: «Amo le salite»

L’azzurro, campione del mondo Under 23: «Amo la salita, lì si vede un vero corridore. Io successore di Nibali? Lui è un grande, io devo crescere senza fretta»
October 22, 2025
Finn, la grande speranza del ciclismo italiano: «Amo le salite»
Mark Lorenzo Finn, 18 anni, campione del mondo Under 23 /Ansa
Giocava a pallone, ed era anche bravino, esattamente come Remco Evenepoel, che dal prossimo anno sarà in pratica suo compagno di squadra. Uno è stato campione del mondo dei professionisti, vincitore di una Vuelta e di una Liegi, oltre a due medaglie olimpiche a Parigi: sia a crono che linea. L’altro è la speranza del ciclismo azzurro, Mark Lorenzo Finn, 19 anni da compiere il 19 dicembre, campione del mondo juniores un anno fa, campione del mondo under 23 in Ruanda quest’anno. Due calci a pallone, poi è prevalsa la passione per la bicicletta. Per il belga per una questione di personalità «odio dividere i successi con gli altri, amo gli sport individuali»; Lorenzo per una questione di attitudine «Ho scoperto la bicicletta e mi sono innamorato». Lorenzo giocava a pallone nella squadra del San Bernardino. Poi si fece male a un ginocchio. «Molti incominciano in questo modo – spiega il ligure -: la bicicletta come mezzo riabilitativo. Poi scopro che mi piace un sacco. L’inizio non è stato semplice, perché non sapevo nulla, men che meno stare in gruppo. Per questo andavo in fuga, per stare al sicuro. Da esordiente ho anche faticato tanto, da allievo, con la Nuova Ciclistica Arma-Team Ballerini, sono arrivati i primi risultati significativi».
Quando l’anno della svolta?
«È il 2023, diciamo ieri: corro tra gli juniores con la maglia della Cps Professional Team e lì arrivano le prime gratificazioni importanti, le prime vittorie».
La prima se la ricorda?
«Certo che sì. Il primo successo in provincia di Arezzo».
Ha un sogno?
«Più d’uno: il più grande è prendere il via al Tour».
E vincerlo?
«È la logica conseguenza di tutti quelli che sono ambiziosi e decidono di spillarsi un numero sulla schiena».
Lei le spille alla sua prima corsa le dimenticò…
«Non avevo proprio idea che servissero».
Nel 2023, l’anno nel quale si palesa, arriva secondo al Giro della Lunigiana, breve corsa a tappe che è il Tour della categoria juniores...
«Secondo dietro al francese Paul Seixas, altro talento. Nella tappa finale, quella di Terre di Luni, vinco e miglioro di 16” il record di scalata del Montemarcello, che apparteneva a Evenepoel».
Cosa pensa quando la definiscono un predestinato…
«Penso: speriamo».
Lei ha conseguito un diploma di maturità scientifica.
«Esattamente, al Leonardo da Vinci di Genova».
Ma è vero che il prossimo anno poteva passare nella prima squadra con Evenepoel, Roglic e Pellizzari, ma ha deciso di restare ancora un anno tra gli under 23?
«Ho una maglia di campione del mondo e mi piace poterla vestire almeno per un anno. Non c’è fretta, meglio prendersi il tempo necessario per crescere».
Al Mondiale, in compenso, è arrivato con una forma stellare.
«Mi sono preparato come meglio non avrei potuto ad Avegno, dove abito. Poi sono andato a correre con i professionisti sia il Memorial Pantani e che il Trofeo Matteotti».
Sentiva che dopo il mondiale di Zurigo, aveva la condizione e la possibilità di fare il bis a Kigali, in Ruanda?
«Se devo essere sincero sì, ero molto fiducioso».
Al Giro Next Gen è stato miglior scalatore e al Tour de l’Avenir è andato vicino al podio.
«Arrivavo dopo due incidenti: non è una scusa, ma diciamo che l’avvicinamento non è stato dei migliori».
Il giorno più emozionante? 
«Il trionfo mondiale me lo sono proprio goduto».
Al mondiale erano molto più accreditati di lei il belga Jarno Wider, lo sloveno Ormzel, che ha vinto il Giro e gli spagnoli Alvarez e Pericas.
«Ma anche io avevo le mie chances e le ho sfruttate al meglio».
Una prestazione pazzesca.
«Vero. 164,6 km di gara, il primo attacco ai meno ai -47 per sgretolare il gruppo e il favorito Jarno Widar; il nuovo forcing ai -32; l’affondo decisivo ai -6 sulla salita di Kigali Golf con cui si è tolto di ruota lo svizzero Huber».
La perfezione in tre mosse.
«È stata la giornata perfetta, davanti ai miei genitori, davanti a Fabiana, la mia fidanzata».
Con lo svizzero Huber, l’ultimo a resisterle, avete un po’ battibeccato.
«Un po’ sì, può capitare in gara: poi l’ho staccato. Meglio stare da soli».
Quando si è detto: oggi è la giornata.
«Quando ho attaccato e ho visto che Widar non c’era».
Cosa non le piace del ciclismo.
«Quando ci si allena si rischia troppo. In Italia c’è un grande problema di sicurezza per i ciclisti, non bisogna nasconderlo. Non tutti sono disciplinati».
Il suo atleta del cuore?
«Geraint Thomas: serio e simpatico. Al Tour del 2018, che vinse, fu pazzesco. Mi colpì molto anche il discorso che fece dal podio di Parigi in maglia gialla. Orgoglioso, fiero, emozionato. Quando ho vinto il titolo iridato mi ha scritto, come del resto Remco (Evenepoel, ndr). Mi hanno entrambi detto di godermela».
Che corridore pensa di essere?
«Completo, ma amo soprattutto la salita: è lì che un corridore si mostra tale».
Sente la responsabilità di poter un giorno andare ad occupare un vuoto lasciato da Vincenzo Nibali?
«Non ci penso. Vincenzo è stato grandissimo, io sto studiando per…».
La gara di Kigali l’ha rivista?
«Qualche clip. Ci sta rivedersi, ma senza esagerare».
Lei è cresciuto in una famiglia di ingegneri.
«Vero, due ingegneri. Mamma (Chiara Iperti, ndr) è ligure, papà (Peter, ndr) inglese di Sheffield, dove Vincenzo Nibali indossò la prima maglia gialla al Tour 2014. Noi abitiamo a Salto, una frazione di Avegno, sopra Recco. “Dagghè Finn” è scritto ancora sull’asfalto davanti a casa nostra: in ligure, non in inglese».

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