«Siamo pelle e ossa»: dalla tragedia al presente, l'Antigone secondo Øyen

Il Teatro Argentina di Roma ospita in prima mondiale la rappresentazione del mito, in una visione contemporanea e innovativa firmata dal regista norvegese
July 23, 2025
«Siamo pelle e ossa»: dalla tragedia al presente, l'Antigone secondo Øyen
Teatro Argentina | Alan Lucien Øyen durante le prove dell’”Antigone”
Si apre il sipario e la vista è agghiacciante: in una scena scarna e lugubre una sedia giù per terra e in alto una ragazza pende impiccata. Lo spazio è delimitato da sette alti muri o lapidi verticali. La tragedia è già compiuta, la giovane Antigone si è tolta la vita. Si era opposta all’empia tirannia dello zio Creonte che l’aveva sepolta viva per aver infranto il nomos, la legge spietata, in nome dell’ethos, della morale religiosa che la spingeva a seppellire il defunto fratello Polinice, reo di aver tradito Tebe. A seguire suicidi anche il suo fidanzato Emone ed Euridice, rispettivamente figlio e moglie di Creonte. Il despota resta solo a maledirsi nel suo lacerante e insopportabile rimorso che gli morde l’animo. Ma pur trovandoci di fronte alla fine della tragedia in realtà siamo solo all’inizio della messinscena ispirata all’Antigone sofoclea, in realtà una radicale reinterpretazione del visionario e talentuoso coreografo norvegese Alan Lucien Øyen, che ha debuttato in prima mondiale all’interno del Teatro Ostia Antica Festival. È stata una vera e mirabile espressione di teatro totale, godibile ancora oggi eccezionalmente al chiuso del Teatro Argentina di Roma (viste l’intimità di certe atmosfere e la minuziosità dei movimenti non poteva essere altrimenti). Questa creazione, coprodotta da Winter Guests, Teatro di Roma e The Norwegian Opera and Ballet, che fonde la danza contemporanea fisica e metafisica, corporea e simbolica, destrutturata e metaforica, con parole dense, crude o poetiche, con musiche al servizio del movimento, con proiezioni video riprese con steadycam dal vivo, è un intreccio che scava, attualizza i versi della tragedia di Sofocle e va oltre. È una disamina al contempo lucida ed emotiva, spietata e accorata delle alienazioni dentro e fuori di noi. È evidente già con lo scioccante incipit dell’avvenuto suicidio di Antigone a cui subito segue l’entrata di Tiresia il cui accompagnatore abbatte subito la quarta parete e svela la platea, informa che quei muri sono in realtà le sette porte di Tebe oltre le quali c’è il vuoto, le macerie, le aberrazioni che la nostra cecità morale volutamente o impotentemente ignora. E si sciorinano i massacri, le guerre, tutti i mali del mondo, non in modo generico ma con riferimenti circostanziati, dai militari che sparano per uccidere, alle madri che rovistano in cerca di cibo (citare l’orrore di Gaza diventa pleonastico), al corriere di Amazon costretto a urinare nella bottiglia per rispettare i tempi di consegna (un pensiero va al film Sorry We Missed You di Ken Loach). Insomma, tutto ciò che la miopia e la malignità umana hanno causato. In effetti si potrebbe dare un sottotitolo allo spettacolo: le conseguenze dell’Antigone. Lo stesso regista e coreografo Oyen esplicita le intenzioni sottese al suo lavoro: «Che cos’è la civiltà umana senza rispetto? Senza la dignità degli altri? Chiunque può essere Antigone; 2500 anni dopo Sofocle le donne continuano a essere vessate nel modo in cui vengono oggettificate, limitate nei diritti e nelle retribuzioni». E proprio attraverso gli effetti devastanti del “dopo Antigone” si dipana tutto il magnetico primo atto. Con la danza a fare da guida suprema (tutti eccelsi gli interpreti della compagnia Winter Guests, affiancati da alcuni dei danzatori storici del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch e da Antonin Monié dell’Opera di Parigi), con una scenografia tanto semplice quanto geniale (impressionante la duttilità delle sette porte ribaltabili che rimodellano spazi e tempi), con una recitazione asciutta o ieratica, confidenziale o lirica, con musiche e canzoni ficcanti, si percorrono in modo rapsodico ma lancinante svariate ferite e cancrene della nostra realtà. Si passa da una fugace evocazione del movimento Black Lives Matter (“I can’t breathe”, “Non respiro”) a un intenso e sconvolgente ricordo delle violenze subite dalle donne di tutti i secoli, leggendarie e reali, dal surreale dialogo con “l’assistente vocale intelligente Alexa” alla macabra e dettagliata descrizione della decomposizione corporea, fino all’austera e tombale immagine finale del primo atto, con Tiresia che chinandosi versa cenere dal suo capo sul corpo di Polinice. Così si chiude l’Antigone di Oyen e già si accenna a un’ovazione che diventa assoluta al termine dello spettacolo, dopo un secondo atto che è un libero fluire della poetica autoriale, un ribadire e ri-danzare la necessità di un’etica e un’indignazione da far risorgere (memorabile la mimica dell’uomo-arma che evoca il trascinante discorso di Chaplin ne Il grande dittatore: «Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore »). Non a caso le parole che suggellano questo capolavoro di due ore e mezza sono un monito a una vitale ed esistenziale presa di coscienza: «Ricordati che sei amato… siamo tutti soli, siamo pelle e ossa».

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