"Pluribus", la serie dove la felicità è un incubo
L’attesa nuova serie di Vince Gilligan (Breaking Bad) immagina un virus che trasforma l’umanità in un’unica intelligenza programmata per un’eterna armonia. Una apocalisse paradossale

Un virus, di nuovo. Solo che questa volta il contagio non si trasmette tramite azzannamento, ma in modo molto più dolce. Prima con un bacio, come nell’Orto degli Ulivi, e poi – quando il tempo comincia a stringere – mediante irrorazione dal cielo. Non è detto che tutti passino indenni dalle convulsioni che la misteriosa molecola provoca nella fase iniziale della trasformazione. Una volta superata la crisi, però, la pace regna sulla terra, come sostiene uno dei personaggi di Pluribus, la nuova serie di Vince Gilligan per Apple Tv. Per gli intenditori: l’epicentro del racconto è situato ad Albuquerque, New Mexico, la stessa città nella quale era ambientata la contraddittoria epopea di Breaking Bad, che tra il 2008 e il 2013 ha segnato una svolta nel racconto televisivo. Non che in precedenza fossero mancate serie di dichiarata complessità morale (su tutte, I Soprano), ma è con la fosca parabola di Walter White, impersonato da Bryan Cranston, che avviene il salto di specie. Dopo che gli è stato diagnosticato un aggressivo cancro ai polmoni, il timido insegnante di chimica con cattedra ad Albuquerque intraprende una lucrosa carriera di produttore e spacciatore di metanfetamina. Non potendo più essere la persona che era, diventa un altro.
Lo spunto torna, rovesciato e amplificato, in Pluribus, del quale conosciamo per ora solo i primi due episodi (il terzo verrà rilasciato nella giornata di oggi). Un paio di ore in tutto, attorno alle quali si è subito sviluppato un dibattito direttamente proporzionato al prestigio dell’ideatore. Nelle interviste, Gilligan spiega come il progetto risalga a una decina di anni fa, motivo per cui le apprensioni scatenate dai progressi dell’Intelligenza artificiale c’entrano fino a un certo punto. La chiave di lettura più adeguata sta probabilmente su un altro piano, che è politico e apocalittico insieme. Apocalittico e non religioso, almeno per quanto ne sappiamo al momento, visto che negli episodi iniziali di Dio non si parla, mentre la fine del mondo è apertamente evocata anche dalla protagonista, la scrittrice Carol Sturka (la interpreta Rhea Seehorn, già presenza fissa in Better Call Saul che pure portava la firma Gilligan). Carol è una delle dodici o forse tredici persone rivelatesi immuni alla mutazione globale. Il numero degli eletti non è casuale e anche “persona” è parola dirimente, perché Carol è rimasta sé stessa, con pregi e difetti. Il resto dell’umanità, invece, si è coagulato in un “noi” indistinto, onnisciente e compiacente. Le identità individuali sono ridotte a simulacri il cui comportamento è improntato a un’ostentata gentilezza. Carol non si deve preoccupare, ripete a ogni occasione l’eco del “noi”, perché presto o tardi anche lei sarà accolta nella rasserenante armonia universale. Nel frattempo, cerca di trattenere gli scatti d’ira, dato che il “noi” proprio non sopporta spintoni e sfuriate. Quando qualcuno alza la voce (e nel mondo senza più conflitti Carol è l’unica a farlo), la giostra delle convulsioni si rimette in moto e le vittime collaterali si contano a milioni. Poco male per il “noi”, che conserva al suo interno anche la memoria dei morti, compresa quella della compagna di Carol. È attraverso la rielaborazione dei ricordi della defunta Helen che il “noi” sa quello che c’è da sapere: dove sono le chiavi di casa, quali sono le recondite ambizioni di Carol, a quale volto del “noi” la donna potrebbe dare fiducia. Quanto agli altri esseri umani ancora non riassorbiti nell’accomodante magma planetario, hanno le loro buone ragioni per adeguarsi.
A rendere evidente la dimensione politica di Pluribus provvede già il titolo, che è tratto di peso dal motto degli Stati Uniti d’America, il classicheggiante E pluribus unum in cui si sancisce l’unione delle colonie d’oltremare come soggetto distinto rispetto alla madrepatria britannica. Dalle prime battute, Gilligan mette in questione i meccanismi del consenso, che è obiettivo auspicabile e legittimo finché non lede il diritto al dissenso. L’elemento apocalittico interviene a questo punto, con il richiamo alla finta pacificazione introdotta dall’Anticristo. Si tratta di uno snodo cruciale, sul quale in passato hanno molto insistito pensatori come Vladimir Solov’ëv e narratori come Robert Hugh Benson, autore del fondamentale Il padrone del mondo (1907). Adesso spunti di riflessione non meno stringenti vengono da una serie tv e anche questo è un segno dei tempi, da soppesare e interpretare con l’accortezza che ogni segno – apocalitticamente – merita.
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