La “Zelmira” di Calixto Bieito è pura vertigine

Al debutto a Pesaro, il regista spagnolo sviscera la complessità del titolo rossiniano, illuminando la rete di relazioni tra i personaggi. Fondamentale la voce di Anastasia Bartoli
August 14, 2025
La “Zelmira” di Calixto Bieito è pura vertigine
Web |
Zelmira alza le braccia al cielo. I pugni chiusi. Lo sguardo in alto. Certo, ha vinto, ha riportato sul trono il padre Polidoro. «Riedi al soglio…» gli canta nel finale, pirotecnico, che tutti aspettano per scatenare l’applauso liberatorio dopo più di tre ore di musica. Ma non è un gesto di vittoria. Piuttosto di resa. Il figlio, figlio di lei e di Ilo, l’abbraccia. Ma lei non lo guarda. Quasi infastidita, alza gli occhi in alto. Perché (forse) sa che quel bambino sarà un altro degli uomini di cui lei dovrà prendersi cura. Come il marito Ilo, riverso su una poltrona, stanco di guerra, un reduce che ha visto troppa violenza. Come il padre Polidoro che ha protetto nascondendolo in una tomba per evitare il colpo di stato. E si invertono le parti come costringe a fare oggi la malattia… quando la mente dei genitori è altrove, quando il dolore fiacca e ai figli tocca la cura. Attualissima intuizione. Bellissima, potente e sconvolgente.
Sta tutta qui, nella forza delle donne, di una donna in particolare, la forza della Zelmira di Gioachino Rossini, titolo di punta dell’edizione numero quarantasei del Rossini Opera Festival di Pesaro. Rof in cerca di identità, verrebbe da dire. Musicale innanzitutto. Perché se i cantanti ci sono (rossiniani, vertiginosi in Zelmira, nella Cambiale di matrimonio e nell’Italiana in Agleri) sono le bacchette che forse devono essere più “rossiniane”. Capaci di scavare nel profondo delle partiture. Di pari passo con i registi – si annunciava l’arrivo di Tobias Kratzer per ora sparito dall’orizzonte del Rof, che il prossimo anno torna ad affidare un titolo, Le Siège de Corinthe, a Davide Livermore, riprende l’eterna Occasione fa il ladro di Ponnelle insieme alla Scala di seta versione Grande fratello di Damiano Michieletto. Più scavo nel testo. Per restituire tutta la forza e la modernità di Rossini. Come ha fatto Calixto Bieito con Zelmira.
Suggestioni che hanno la forza disarmante della semplicità nel racconto del regista spagnolo, alla sua prima volta a Pesaro. Intuizioni tutte sul gesto, tutte incarnate nella relazione tra i personaggi, racconto che si squaderna sulla grande pedana che è al centro dell’Audiotirum Scavolini, palazzetto dove il pubblico è sugli spalti, tutto intorno, spettatore e coro che guarda e commenta la tragedia, insieme al coro vero, quello del Teatro Ventidio Basso, anche lui in mezzo al pubblico. Palazzetto dove l’azione si “gioca” al centro. Su quella pedana di quadrati di luce – discoteca psichedelica anni Settanta quando si accende di verde e di giallo, ma anche tavolo anatomico dalla luce fredda dove vivisezionare l’animo umano, la disegna lo stesso regista insieme a Barbora Horáková. Aria, acqua, terra… nelle vasche che si aprono sul pavimento. Il fuoco è la musica. Perché l’orchestra (che è quella del Teatro Comunale di Bologna, che torna al Rof, ritorno che, però, potrebbe durare solo un’edizione perché il prossimo anno l’orchestra titolare potrebbe essere la Filarmonica Rossini) è al centro della scena. La guida, corretto, ma non di più, Giacomo Sagripanti. Il direttore tiene bene le fila del racconto (e non è semplice con una scena immersiva a trecentosessanta gradi), ma la vertigine di Rossini non arriva come dovrebbe.
Nonostante la musica, in uno spettacolo che può apparire tutto sull’immagine, sia davvero al centro – fisicamente e non solo. Si parte da lì, sembra dire con un segno spaziale semplice, ma eloquente, Bieito. Capace sempre di darti uno spunto sui cui riflettere – in teatro e poi (soprattutto) fuori, una volta usciti, una volta che la musica ha decantato e si è sedimentata nell’anima. Come fanno certe immagini. Zelmira che allatta il padre Polidoro. Antenore, l’antieroe, ridotto a un bambino non cresciuto che gioca a fare il tiranno, tra stelle filanti e bolle di sapone e una corona giocattolo in testa. Antenore, ancora lui, che bacia Leucippo, bicipiti e addominali in vista, carnalità che rimanda sinistramente a un oggi dove spesso e purtroppo il favore sessuale detta le regole del mondo, nonostante le denunce, nonostante le indignazioni, nonostante i proclami… Emma e quel nastro magnetico, le memorie di famiglia, il racconto della verità, srotolato dalla bobina e ingarbugliato… Leucippo che dissotterra il cadavere di Azorre (lo hanno ucciso lui e Antenore), consegnando lo spirito inquieto a un limbo nel quale vagare.
E siamo tutti in quel limbo, ai bordi di quella pedana dove la storia si srotola. Un girone dantesco dove siamo condannati a cercare un perché. Tirati dentro in questo limbo dove le vicende di Zelmira rivivono in un eterno presente. Un tempo senza tempo. Un ieri (la Lesbo del libretto di Andrea Leone Tottola) che è drammaticamente un oggi. Un oggi di guerra e di violenza che ci ha stremati tutti. E l’ulivo che gira per la scena resta in un angolo. Uno spettacolo di suggestioni. Di visioni. Da decodificare (alla prima diversi i fischi per Bieito). E da rimettere insieme in una visione personalissima e unica – nessuno del pubblico vede lo stesso spettacolo, ognuno, nella grande arena dell’Auditorium Scavolini, lo segue da un’angolazione diversa. Da ricomporre sulla musica sublime – il quintetto, il duetto tra Zelmira ed Emma, la scena finale… – di Rossini. Quella dell’ultima opera napoletana del compositore pesarese, andata in scena al San Carlo nel 1822.
Opera di voci. Intensa, emozionatissima Zelmira Anastasia Bartoli. Voce dal suono bello, a tratti magnificamente ipnotico, avvolgente e sempre proiettato. Tecnica solida, colorature sempre a fuoco, acuti svettanti. Applauditissima, spessissimo a scena aperta. Come tutti. Come Lawrence Brownlee, voce che il tempo non ha (incredibilmente) scalfito, luce e trasparenze, aria e seta nello squillo sempre musicalissimo e intonato del tenore americano. Acuti, solidissimi, come la tecnica, carisma scenico che cattura e ipnotizza le armi che sfodera Enea Scala per disegnare il suo Antenore, bambino non cresciuto in preda a traumi che lo portano sull’orlo del baratro. Alla fine scappa dalla scena (dalla Storia). Perché nessuno vince. Forse nemmeno Zelmira. Le braccia al cielo. I pugni chiusi. Lo sguardo in alto. Segno di resa. Oppure di lotta. Per provare, nonostante tutto, a cambiare la storia.
© riproduzione riservata

© RIPRODUZIONE RISERVATA