Aida Satta Flores torna con "Volver", album di denuncia

Il nuovo album della cantautrice siciliana è un viaggio musicale che parte da una “preghiera laica” cantata al telefono a Battiato e arriva fino a oggi
October 14, 2025
Aida Satta Flores torna con "Volver", album di denuncia
Aida Satta Flores; la cantautrice siciliana torna con un nuovo album intitolato “Volver”
Un doppio vinile molto ambizioso che unisce il primo disco del 1992 e l’ultimo del 2025. Questo è Volver (Azzurra music) il nuovo progetto discografico, uscito nei giorni scorsi, di Aida Satta Flores, storica cantautrice siciliana. Tutto nasce dalla collaborazione, per due anni, con i giovani del Conservatorio Scarlatti di Palermo, e diventa l’incontro tra il disco d’esordio Il profumo dei limoni (che fu prodotto dai Nomadi) e Canzoni à la coque, cioè con il cuore ancora vivo.
Com’è nata l’idea di “innestare” sul suo primo disco alcuni brani dell’ultimo?
«Sono canzoni col tuorlo ancora vivo, di ieri e di oggi. Ho voluto avvicinare ciò che scrissi trentatré anni fa alla me di oggi, perché, pur se è importante girare in eterno cambiamento, semi e semenze sono importanti, anche per i sogni più grandi».
Come scelse gli arrangiamenti nel 1992? Ci racconta di quei giorni e di Augusto Daolio?
«Sarò sempre grata ai Nomadi, soprattutto ad Augusto Daolio, che veniva a trovarci in studio, a Parma. Era già molto ammalato, ma lui (ed io) non sapevamo quanto. Aveva freddo Augusto, ed era estate. Lo si vede nel videoclip dell’epoca accanto a me. Mi chiedeva sigarette da fumare in bagno, di nascosto, perché sapevamo avesse una polmonite. Volle cantare tutte le canzoni, ma non aveva forze. L’operazione musicale di oggi, intorno alle canzoni “adulte”, è stata quella di farle tornare alla loro natura».
So che c’entra anche Franco Battiato…
«Era il 1990, due anni prima che arrivassero i Nomadi, e cantai Il profumo dei limoni a Battiato, appena composta, dalla cornetta del telefono di casa di mia madre. Franco la definì una preghiera laica, consigliandomi, se un giorno l’avessi incisa, di lasciarla così, come gliel’avevo cantata al telefono: voce e basta. Quando entrai in studio m’imposi: questa canzone doveva restare così, una preghiera laica. La registrammo con la Corale giovanile Città di Parma, senza alcuno strumento».
Com’è andata invece con Moni Ovadia, che in Volver oggi duetta con lei in questa canzone?
«Lo contattai dicendogli se poteva venire in studio a Palermo, per un cameo dentro a una mia vecchia canzone. Non volle leggere nemmeno il testo. Lo scrissi il giorno prima che venisse in studio. E sono felice di lui e del fatto che ancora oggi vorrei sentire quel “profumo dei limoni al posto degli spari in città”. Basta riuscire a custodire e preservare il tuorlo vivo».
Ha unito il suono classico del Conservatorio Scarlatti di Palermo alla sua poetica d’autore, che ha la grazia ma anche le viscere. Quali erano gli intenti?
«Grazia e viscere mi piace. Amo gli studenti del conservatorio, ma studiare tecniche e matematica della musica non è sinonimo di essere artisti. Alle istituzioni musicali penso manchi l’adesione alla realtà: questi ragazzi non conoscevano nulla di Siae, diritto d’autore, edizioni, suono. Per fortuna, tuttavia, sono giovani: studiare non basta, se non si affina l’orecchio, l’ascolto. Oggi si sa ascoltare un suono unico e, se spazi in altre direzioni, non arrivi. Avevo l’intento di nuotare tra acque fresche, per diventare più “giovane”, a sessant’anni. Invece mi hanno fatto “invecchiare”, mentre molti di loro mi han detto di essere “ringiovaniti” a contatto con me. Questo è il potere della musica condivisa».
Come ha scelto gli ospiti? In Semi di note Max Manfredi mi sembra perfetto.
«Ritengo Max Manfredi una delle migliori penne d’Italia, e non solo. Mi piace il suono della sua voce, che porge, non impone. Ho amato immaginare lui e il theremin in Semi di note. Ho scelto gli ospiti, non me ne vogliano, pensando principalmente al vero valore aggiunto alla canzone, come se ognuno fosse un ulteriore “strumento” importante dentro alla canzone che proponevo loro».
Uno dei suoi temi centrali è la violenza di genere. Ci vuol parlare di La metamorfosi di un fiore? Anche lì l’eleganza di Minghi sembra starci alla perfezione.
«Scrissi la canzone davanti ad un telegiornale nel maggio 2021, alla notizia della scomparsa della giovane ragazza pakistana, Saman Abbas, uccisa dalla sua famiglia perché si oppose a un matrimonio forzato, proprio a Novellara, territorio dei Nomadi. Mi recai a Novellara, da Beppe Carletti e dalla figlia Elena, che all’epoca era sindaco. Dopo lacrime di commozione e complimenti, la risposta del sindaco fu che non si potevano “sollevare ulteriori polveroni”. Ci rimasi molto male, come se una canzone sollevasse polveroni: penso esattamente il contrario. Una canzone può togliere un velo, far crollare difese, squarciare muri di omertà; ruolo dell’artista è proprio questo, contribuendo alla memoria storica, sperando in un futuro migliore, tra tante false “evoluzioni” che hanno avuto il potere di fortificare la parte meno bella dell’umanità. Allora ho contattato Amedeo Minghi: servono voci maschili autorevoli accanto alle donne, e ho affidato proprio a lui gli ultimi versi di speranza e fiducia, che ha interpretato magnificamente. Davanti al mare».
Cosa rende tanto unica, fiera e libera l’arte, la poesia e la musica siciliana?
«Forse l’isolamento, che non è sempre un male, congiunto alla molteplicità di culture passate da qui, che hanno lasciato usi, costumi, tracce e attitudini all’apertura. La Sicilia non ha mezzi termini: aspra e generosa, antica e futura. Per avere lo sguardo dritto e aperto sul futuro non servono tecniche e pratiche eccessive di tecnologia. I siciliani hanno memoria e recondite voglie di rivalsa. Tutto questo mix rende gli artisti siciliani possibili fari e antenne».
Può essere un posto di rinascita e antidoto all’omologazione musicale di oggi?
«Se non coltivi la bellezza della diversificazione, stai commettendo un crimine: tu, major discografica, tu editore, tu televisione, tu che ci governi. Stai tagliando le ali agli uomini che verranno, che cresceranno malissimo senza conoscenza. Troppi, tra i giovani, utilizzano ormai le parole come vacui slogan, vuoti di significato. Se non saranno forniti di strumenti di discernimento, di ascolti diversi, non ci sarà soluzione al suono unico. Forse ci meritiamo, tutti, un’altra “musica”».

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