A Torino un Amleto tragico sotto la maschera da clown

di Roberto Mussapi
Il classico di Shakespeare fino al 26 ottobre al Teatro Carignano di Torino con la regia di Leonardo Lidi
October 13, 2025
A Torino un Amleto tragico sotto la maschera da clown
L’“Amleto” in scena al Teatro Carignano di Torino fino al 26 ottobre
La scena, ampia, appare di un bianco luminoso, che perdura per tutto lo spettacolo. Un bianco non freddo e marmoreo, ma onirico, mi pare quello dei “sogni bianchi del mattino” di cui parla Aristotele: qui ha luogo la tragedia più oscura, il buio della notte di Elssinore e dell’anima. Amleto, nella regia di Leonardo Lidi, in prima nazionale, inaugura la settantesima stagione dello Stabile di Torino (Teatro Carignano, fino al 26 ottobre). In due ore di spettacolo senza intervallo propone un Amleto nella traduzione e riduzione di Diego Pleuteri. La consueta questione delle riduzioni dei classici, massimamente Shakespeare: la riduzione è sempre, a mio parere, limitante in un capolavoro. Ma la realtà del teatro ha le sue esigenze, più che comprensibili: il pubblico oggi difficilmente regge uno spettacolo di quattro ore. Non si vendono i libri seri, non si vendono i quotidiani e le edicole chiudono: non esiste più il tempo dell’attenzione alla lettura e di conseguenza nel teatro e anche nel cinema. E il teatro, con i suoi gravi problemi, deve sopravvivere. Inoltre personaggi di Shakespeare come Amleto, Romeo e Giulietta, Otello, Macbeth sono entrati anche nella memoria inconscia di molti, e possono permettersi una riduzione, purché seria. Quale è questa, di Pleuteri, che sceglie di trasporre molte delle parti tagliate da narrazioni a monologhi: parte dell’azione diviene appunto narrazione, con capacità di sintesi e tenuta di tensione.
Così qui la tragedia di Amleto non ha inizio sugli spalti come nel testo di Shakespeare, con le scolte, la notte danese di neve e nebbia, lo Spettro. Qui è subito in scena Amleto, che presto lo evoca: lo spettacolo inizia quindi con un monologo, e il protagonista si rivela ad apertura di scena un po’ allarmante: Amleto non giovane, per nulla di affilato nel volto che è melanconico ma pingue, ed è vestito come una specie di pierrot o clown, muovendosi all’inizio in modo che pare beckettiano. Con il principe di Danimarca ci hanno abituati a tutto, ma questa impressione iniziale fortunatamente svanisce quasi subito: la recitazione è immediatamente drammatica, quella del clown si rivela una maschera, Amleto è qui in e in tutto lo spettacolo tragico, e il suo dolore infuocato, in quel bianco non certo algido e giustamente onirico. E nel suo monologo si riassume molto di cui che sarà detto o sta avvenendo o è appena avvenuto. Questo Amleto artatamente grasso, con un pancione posticcio da clown, è tormentato, follemente lucido come il personaggio esige. «E allora ecco che Amleto può venirci incontro - scrive Lidi -, può ricordarci, ad esempio, di trattare bene gli attori che sono l’essenza del nostro tempo e che, per smascherare la corruzione del re, per rappresentare le nefandezze di chi ci governa, di chi ci uccide il padre e ci fotte la madre, abbiamo bisogno di una trappola per topi, una trappola chiamata teatro».
La trappola teatro di Lidi funziona, gli attori, tutti, eccellenti (Mario Pirrello/Amleto, Giuliana Vigogna/Ofelia, Nicola Pannelli/Claudio, Ilaria Falini/Gertrude, Rosario Lisma/Polonio/becchino, Christian La Rosa/Orazio/Guildenstern, Alfonso De Vreese/Laerte/Rosencrantz) e diretti con energia e attenzione al dettaglio, creano uno spettacolo di forte impatto emotivo, che consente di superare tagli e sacrifici del drammaturgo, come la figura del capocomico a corte con il suo leggendario monologo su Ecuba che fa piangere e tormenta Amleto. E una forzatura: Amleto, in Shakespeare, non bacia appassionatamente la madre Gertrude, mentre qui lo fa. Non accade quasi mai, se non nel peggior Amleto della mia vita, il film di Zeffirelli. Ma qui quella scena scivola via, dominata dall’uccisione di Polonio realizzata con notevole efficacia drammatica.
Lo spettacolo cresce con la scena della mite e docile pazzia di Ofelia, e la sua straziante cantilena, e il fatale, inconsapevole andarsene dal mondo della più dolce e infelice di tutte le donne di Shakespeare, tutte, tranne una, infinitamente amate dall’autore. E la tragedia giunge al culmine con la scena finale del duello falsato, della coppa con il vino avvelenato: il regista li fa morire come in azione, un’azione al rallentatore e nello stesso fulminea, immobilizzante. Finale ad alta tensione, il duello si spezza e interrompe come un incubo, fino all’irrigidimento fatale dei due contendenti, mentre tutti muoiono come immobilmente, e Orazio diviene il cantore della tragedia.

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