sabato 16 febbraio 2019
Il musicista sta lavorando a tre nuovi progetti e dice: «La musica contemporanea? Ostica, trent’anni anni fa infatti dettava legge una certa élite culturale»
Il musicista Fabio Vacchi

Il musicista Fabio Vacchi

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«Conoscere il limite per sfidarlo. Per provare a superarlo. Il limite di chi esegue e di chi ascolta». Per questo Fabio Vacchi sul tavolo di lavoro, accanto al pentagramma, ha manuali di biologia, fisiologia, biochimica, anatomia. «Perché l’emozione passa dai neuroni. E perché l’atto di comporre è sempre legato ad un’attività percettiva e dunque è fondamentale conoscere come il suono si produce e come viene percepito». Martedì Fabio Vacchi compie settant’anni: bolognese di nascita e formazione, oggi vive a Milano. Tempo di bilanci, ma anche di progetti. «Sto lavorando a due nuove opere per due teatri italiani. E poi a una nuova partitura per il 2021 per il Quartetto di Cremona» racconta il musicista al quale di recente l’orchestra sinfonica di Milano Giuseppe Verdi, dove Vacchi è compositore residente, ha dedicato una settimana di appuntamenti con la prima italiana (dopo la prima mondiale alla Carnagie Hall di New York) del Concerto per violino Natura naturans. «Un modo per l’orchestra di crescere insieme attraverso uno stile di un musicista. Per me la possibilità di confrontarmi con un pubblico radicato su un territorio, che è anche il mio essendo ormai milanese, e abituato a progetti culturali dal segno forte».

Le fa ancora effetto, Fabio Vacchi, sedersi in platea e ascoltare un suo brano?

Il compositore è un musicista anomalo perché non ha uno strumento con il quale fare musica: il mio strumento diventa l’orchestra, diventano gli interpreti che eseguono le mie partiture. Ho sempre vissuto bene questa cosa, cercando una naturalità nella scrittura per offrire una naturalità di esecuzione ai musicisti e soprattutto una naturalità di ascolto al pubblico.

C’è stato, però, un periodo in cui la musica contemporanea ha fatto di tutto per non essere ascoltata.

Trenta, quarant’anni fa c’era una élite culturale che dettava legge con un linguaggio ostico, con la teorizzazione di una musica per pochi. Questo atteggiamento ha portato ad un allontanamento del pubblico e ad un isolamento degli artisti. Io combatto da sempre la mia battaglia per approfondire l’aspetto umanistico dell’arte, per ristabilire un rapporto tra compositore e opera e tra opera e pubblico. La composizione è sempre legata ad una funzione percettiva, ma le avanguardie del secondo dopo guerra lo hanno dimenticato.

È qui che si inserisce il confronto con le neuroscienze?

Ho sempre studiato il suono alla luce delle scienze neuronali. Questo mi ha portato a scrivere con una naturalità che non significa, però, rinunciare a proporre musica difficile: l’arte è manipolazione di un materiale per restituire la propria visione del mondo, il proprio pensiero. Qualcosa di ideale e di ideologico e quindi anche di politico. E oggi più che mai c’è bisogno di questo, c’è bisogno di un’arte che ci faccia guardare dentro noi stessi. Il potere conosce bene queste potenzialità e per questo cerca di manipolare l’arte. Oggi, rispetto a qualche decennio fa, c’è più libertà di espressione, ma questa libertà passa anche dalla possibilità di far circolare le proprie composizioni.

Il rischio è che brani di musica contemporanea dopo la prima esecuzione finiscano nel dimenticatoio. I suoi lavori fanno eccezione. Come se lo spiega?

Forse per i temi che tratto. Ho sempre avuto una visione sociale del mestiere di compositore, un lavoro che si declina in una visione estetica che si fa etica nel rispetto del creato, del prossimo, del diverso, temi che mi stanno a cuore e che ho sempre messo nei miei lavori. Penso a Dai calanchi di Sabbiuno che ho orchestrato per Claudio Abbado per ricordare i partigiani. A Diario dello sdegno che ho scritto per Riccardo Muti appuntando quotidianamente il mio sconcerto di fronte ai fatti seguiti all’11 settembre. In Irini, Esselam, Shalom ho fatto dialogare i testi di vangelo, corano e torah.

Tanto teatro musicale.

Fatto per raccontare. La mia prima opera è del 1982 ed è tratta da Girotondo di Schnitzler, un racconto. Non ho mai accettato l’idea delle avanguardie che facevano teatro musicale per dimostrare che non era più possibile fare teatro musicale. A lungo per denigrare un brano di musica contemporanea si diceva che era narrativo. Ma narrare è un istinto primario della specie, è un principio di identità.

Ha scritto anche per il cinema.

Ma non ho mai voluto fare colonne sonore: ho collaborato con due maestri che sono stati anche due grandi amici, Ermanno Olmi e Patrice Chéreau, che non mi hanno chiesto una colonna sonora tradizionale, ma hanno voluto la mia musica: ne Il mestiere delle armi e Centochiodi c’è il mio stile nudo e crudo e forse è proprio questo che ha funzionato e ha portato anche certo pubblico dal cinema alle sale da concerto.

C’è poi il sodalizio artistico con Toni Servillo.

Per la riapertura del teatro Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere propose in forma scenica il mio Benjaminowo: padre e figlio, ciclo di lieder su testi di Franco Marcoaldi sulla prigionia dei nostri genitori in campo di concentramento dopo l’8 settembre 1943. Da qui l’idea di fare Eternapoli, spettacolo che dopo il debutto al San Carlo il prossimo anno sarà a Milano e Bologna. Con Servillo mi sono sentito subito in sintonia sul modo di intendere il nostro lavoro: quello che facciamo noi artisti è un messaggio che lanciamo e che deve trovare orecchie che intendano e un terreno arato sul quale attecchire.

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